Cinque (Regione): «Enti prosciugati dalla spending review. Senza personale qualificato e senza i livelli locali, il Pnrr rischia di fallire»

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Perequazione e supporto ai territori meno competitivi per una crescita organica del Paese. Con questi presupposti si garantisce il successo del Piano nazionale di ripresa e resilienza in Italia e al Sud. Perché la storia, anche quella recente, lo insegna: si vince o si perde tutti insieme. Ne è convinto Ettore Cinque, assessore al Bilancio della Regione Campania nominato nell'autunno del 2020 con la seconda giunta De Luca. Professore ordinario presso il Dipartimento di Economia dell'Università "Luigi Vanvitelli", Cinque è autore di diverse pubblicazioni in materia economica e di finanzia pubblica e vanta un curriculum punteggiato di esperienze di alto profilo tecnico: è stato, tra l'altro, consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la chiusura dell'emergenza rifiuti in Campania, sub commissario ad acta per la prosecuzione del Piano di Rientro del Servizio Sanitario regionale e dal febbraio al maggio 2018 ha presieduto So.Re.Sa., la società in house della Regione che si occupa degli acquisti per le aziende del sistema sanitario campano.

Assessore, che cosa si devono aspettare i cittadini campani dal Pnrr?

«C'è una retorica che ha enfatizzato il ruolo di uno strumento sicuramente molto importante sia per la dote finanziaria che l'Ue ha messo a disposizione sia per le missioni contenute nel programma. Per mettere a fuoco le aspettative, però, bisogna ricordare che il Pnrr va messo in campo con un corollario di riforme, attività e investimenti e ha un orizzonte temporale che arriva fino al 2026, quindi non cambierà la vita dei cittadini in pochi mesi. Di sicuro è una grande opportunità, e vedo che il Paese è tutto proteso nello sforzo di utilizzarlo nel modo migliore. D'altro canto, comprendo anche la retorica, perché il Pnrr arriva in un momento in cui la pandemia attanaglia le vite di tutti noi, e restituisce uno spiraglio di fiducia e una prospettiva che si riflette in un'effervescenza che si è manifestata già nell'anno in corso. Ma prima di cantare vittoria, parlando di rivoluzione copernicana, sarei cauto».

Da più parti si levano perplessità sulla capacità di programmazione e di spesa degli enti locali. A suo avviso, sono fondate?

«La perplessità alle quali si riferisce è l'elemento di preoccupazione più fondato. Lei però mi porta a parlare delle carenze degli enti locali, ma io partirei dai livelli centrali di governo. Si fa sempre riferimento alla scarsa capacità di spesa degli enti locali: per carità, chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Ma se andiamo a confrontare la capacità di spesa dei Por regionali con quella dei Pon nazionali scopriamo che il rapporto è di 10 a 1 o 10 a 2 a favore dei primi. Insomma, se Sparta piange, non è che Atene rida. Dopo anni di spending review in cui si pensava che la pubblica amministrazione fosse solo un'idrovora che succhiava risorse, non si è investito nel personale e le strutture sono state prosciugate dal blocco del turnover, che le ha private delle competenze di tante persone accompagnate all'uscita e non sostituite con giovani, magari dotati di capacità digitali. Quando in quegli anni qualcuno ha provato a dirlo, lo ha fatto in un silenzio assordante ed è stato tacciato di voler fare nuovo assistenzialismo. Oggi ci rendiamo conto che senza quelle competenze le amministrazioni vivono una grande difficoltà. Il governo sta cercando di correre ai ripari con procedure di reclutamento di personale tecnico e ingegneri a tempo determinato. Ma certi buchi non si riempiono dalla sera alla mattina, e comunque il rischio è di ricorrere a società di consulenza esterne che risolvono i problemi nell'immediato ma non lasciano un patrimonio di competenze. Insomma, ancora una volta inseguiamo l'emergenza».

Per il Pnrr, che impone tempi e regole molto stringenti, è prevista una gestione centralizzata. Ritiene che sia la strada migliore?

«Il governo ha mantenuto la regia saldamente nelle proprie mani e sono convinto che sia una scelta giusta. Una volta che c'era da negoziare un programma così ambizioso con la Commissione europea, era opportuno che lo si facesse al livello centrale. Io queste risorse le chiamo le addizionalità delle addizionalità, con riferimento ai fondi statali. Non c'è nulla di più strategico e nazionale di risorse come queste, è giusto mantenere livello molto alto di interlocuzione. D'altro canto, però, credo che si siano stabiliti obiettivi e cronoprogrammi molto stringenti per i quali il contributo del livello territoriale sarà decisivo. Senza il contributo fattivo sin da subito delle articolazioni periferiche dello Stato, tutto questo non potrà atterrare sui territori e vedere concretezza per i nostri cittadini. Il timore è che con la centralizzazione della strategia si pensi anche alla centralizzazione dell'attuazione. Non vorrei che gli enti territoriali venissero chiamati a cose fatte, quando sarà troppo tardi, per togliere le castagne dal fuoco. Dunque, il mio appello al governo è: fateci capire subito che cosa dobbiamo fare e in che tempi».

Di che cosa ha bisogno la Campania?

«Le priorità secondo me sono legate all'innovazione, ad un'economia basata sulla sostenibilità ambientale, dunque le energie alternative come l'idrogeno. Questo significa anche competenze umane. Spesso si parla dei giovani formati qui che vanno a svolgere le loro mansioni in altre città italiane o all'estero. La sfida non è quella di non farli partire, ma di farli tornare offrendo loro posizioni di rilievo e gratificazioni anche sul piano economico. Oggi pensare ad uno sviluppo con le vecchie categorie sarebbe antistorico. Visto che su quelle alcuni territori sono in netto ritardo, meglio andare avanti veloce e saltare alcuni decenni per concentrarsi sulle direttrici di sviluppo che domineranno i prossimi trenta- quarant'anni, realizzando interventi mirati sia nel pubblico che nel privato. Se si fanno le scelte giuste, se si lavora seriamente, un territorio può cambiare faccia anche in pochi anni. La storia ci insegna che le riconversioni hanno cambiato il volto a intere città».

Intanto, c'è un ritardo sulla presentazione dei progetti e la «palude burocratico-amministrativa-giudiziaria», per citare il presidente De Luca, certo non aiuta ad essere ottimisti. Come si scongiura il rischio di sprecare un'altra grande occasione?

«Questo, insieme con le competenze e le risorse umane, è l'altro grande tema. Il groviglio di regole che ci troviamo davanti è difficile da sbrogliare. È una stratificazione di norme poste a tutela della trasparenza e della terzietà dell'amministrazione, ma il risultato è che ci si imbriglia in tante regole spesso complesse e questo rallenta l'azione amministrativa con il terrore della firma, in alcuni casi fino a paralizzarla. Le procedure si fermano, si riparte da zero, si arriva al contenzioso amministrativo. Qui non si tratta di dichiarare il "liberi tutti", ma basterebbe guardare il modello europeo, che ha fissato delle regole. Noi invece aggiungiamo sempre vincoli, regole e centri di controllo aggiuntivi rispetto a quelli stabiliti dall'Ue».

Alla luce di queste osservazioni, pensa che il Pnrr riuscirà ad affrontare le debolezze strutturali dell'economia, riducendo l'atavico divario infrastrutturale, occupazionale e dei servizi tra le due Italie in cui è divisa l'Italia?

«Non mi è consentito essere pessimista, ma non posso non dire che bisogna essere vigili e attenti. Ci sono regole che dovrebbero garantire al Mezzogiorno l'assegnazione di risorse in misure più che proporzionali. La preoccupazione è data dal sistema dei bandi: un sistema competitivo che premierà i territori che sono più attrezzati. Per evitarlo, bisognerà sostenere e accompagnare i territori che partono in condizioni di svantaggio».

Con il Pnrr tornano di attualità anche il dibattito sull'autonomia differenziata e quello sul criterio della spesa storica.

«Se la spesa storica è un criterio oggettivamente ingiusto, sull'autonomia penso che non dobbiamo indulgere in un atteggiamento manicheo e preconcetto, come se l'autonomia fosse di per sé il demonio. Il problema vero è capire con quale sistema di regole ci si muove verso un'autonomia e se ci si muove dallo stesso punto di partenza. Se si attua una perequazione, con l'autonomia - e quindi con la responsabilizzazione dei soggetti locali - è molto probabile che il risultato sia maggiore in termini di efficienza e di vicinanza ai desiderata dei nostri cittadini. Se l'autonomia diventa invece una scorciatoia con la quale i territori ricchi finiscono per accaparrarsi maggiori risorse, non è quello che serve al nostro Paese. Perché un Paese o cresce tutto o non cresce, questo vorrei che fosse chiaro. Il meridionalismo a un certo punto è uscito dai radar nazionali perché qualcuno ha pensato che se la locomotiva del Paese tirava, tutto il Paese sarebbe ripartito. Ma è un paradigma fallito, perché l'Italia ha perso terreno nella sua interezza rispetto a Paesi come Germania, Francia, Spagna. Se il Paese cresce tutto, sicuramente se ne avvantaggia anche il Nord».