Dal buio alla luce, il miracolo della Sanità

La direttrice dell'Ipogeo dei Cristallini: «Un mondo a parte in cui tutti si aiutano. Qui mi hanno insegnato la tolleranza»

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Napoli rinasce dalle sue viscere, e non potrebbe essere diversamente. Dal Cimitero delle Fontanelle alle "anime pezzentelle" dei Tribunali, dalle Catacombe di San Gennaro a quelle di San Gaudioso, il culto dei vivi che furono è un incontro rispettoso eppure disinvolto, libero da quella ingessata riverenza che si porta di solito ai concittadini consegnati alla pace eterna. Non è raro, da queste parti, che ci si rivolga ai morti con la confidenza che si usa coi parenti più stretti, nell'intima convinzione che in fondo siano in qualche modo ancora tra noi.
Sarà che nel ventre di Partenope il passato più remoto e misterioso sopravvive in una dimensione onirica parallela a quella del presente. E se pure fisicamente non la interseca, confluisce con questa nel brodo di una cultura millenaria che dall'antica Grecia è arrivata fino ai giorni nostri. Sta di fatto che sotto la pelle di Napoli ribolle un magma che scorre come un fiume carsico. Storie e destini che nella città porosa si mescolano tra la superficie e il sottosuolo in un'osmosi perpetua, per poi risalire prorompenti.
Dev'essere accaduto qualcosa del genere anche in via dei Cristallini, dove alla fine dell'800 dagli abissi dell'antichità sono affiorati quattro ipogei greci scavati nel tufo, consegnati alla pubblica fruizione grazie alla passione di Alessandra Calise e di suo marito Giampiero Martuscelli, che li aveva ereditati dal barone Di Donato, proprietario dell'omonimo palazzo in cui sono state ritrovate le tombe. «La cultura sta cambiando questo quartiere», assicura entusiasta la direttrice dell'Ipogeo dei Cristallini. Così, sembra un paradosso, il buio dei sepolcri illumina di una luce nuova il quartiere delle "stese" e dei clan, attanagliato a lungo dalla morsa del degrado e della povertà. E in quella "nuttata" che sembrava non dovesse finire mai s'intravedono i bagliori dell'alba.

Dottoressa Calise, la Sanità è un esempio di come l'impresa culturale possa bonificare un luogo sul piano sociale. Come ha visto cambiare il quartiere in questi anni?

«Abbiamo avviato il nostro progetto circa tre anni fa. Mio marito, Giampiero Martuscelli, aveva ereditato l'ipogeo dal barone Di Donato, che nel 1889, cercando acqua e tufo ha scoperto questa meraviglia completa di arredi funebri: circa 700 pezzi in un contesto di grande valore archeologico. Si tratta di una delle poche testimonianze funerarie elleniche al mondo conservate in questo stato. Quella di ripulire l'area dalla terra, dai detriti e dalla lava scesa da Capodimonte fu un'intuizione felice. Il barone capì l'importanza del ritrovamento, che infatti è arrivato a noi già in stato splendente, con dipinti dai colori bellissimi, mai restaurati e comunque intatti, ma era sempre rimasto chiuso. Io e mio marito stiamo insieme da 26 anni, nei quali sono arrivate tante richieste di vedere questo sito, che per gli appassionati ha una notevole importanza. Dopo 110 anni dalla sua scoperta, abbiamo deciso di condividere questa meraviglia con la città».

La sfida era ambiziosa: come l'avete vinta?

«Dopo essere stata tra Torino e Milano per dieci anni, cinque anni fa sono rientrata con il sogno di aprire al pubblico l'ipogeo. Abbiamo partecipato per caso ad un bando per la Cultura della Regione Campania e dopo un anno e mezzo abbiamo saputo che ci eravamo classificati terzi tra le tantissime proposte. Abbiamo ottenuto il massimo del contributo, fondi del Por Campania Fesr che ci sono serviti per partire. Ma questa sfida l'abbiamo vinta anche grazie al nuovo soprintendente per i Beni archeologici, Luigi La Rocca, e all'Istituto centrale del restauro, con cui abbiamo stipulato un accordo di collaborazione».

In un luogo abitato anche da tanta sofferenza sociale, sono cambiati i comportamenti delle persone?

«Ci sentiamo custodi, non proprietari di questo bene, vogliamo gestirlo con rispetto e amore. Ma chi ha veramente custodito e rispettato questo sito è stato il quartiere, che sapeva della sua esistenza e non lo ha mai violato. Ecco perché per gli abitanti della Sanità la visita all'ipogeo sarà sempre gratis. Io sono entrata nel Rione Sanità in punta di piedi alcuni anni fa, faccio la volontaria come maestra del doposcuola, mi sono immersa in questo mondo. Mi sono detta che dovevo prima dare. E sto vedendo le cose cambiare. Abbiamo assunto tre ragazzi del quartiere che vengono da situazioni difficili e ora lavorano felici. La grande forza di questo quartiere è che tutti si aiutano. C'è una solidarietà che nasce tra le persone quando si vive in condizioni di difficoltà diffusa».

Sono stati fatti dei passi avanti sul piano del decoro urbano, della civiltà e della sicurezza?

«Io non ho mai visto scene violente: tra le persone c'è tanta gentilezza. Certo, i palazzi sono ancora rotti e anche le strade, ci sono auto parcheggiate in doppia fila, motorini che vanno contromano, ma niente che faccia percepire un pericolo. Qui hanno sofferto tanto, e questo li spinge a tendere sempre una mano all'altro. Quando capiscono che vuoi fare qualcosa di buono, ti aprono le porte. Noi abbiamo coinvolto siti culturali, artisti e artigiani del quartiere. Ci siamo buttati senza pensare troppo, e oggi siamo parte di questo che è un mondo a parte pieno di cultura, di arte, di vivacità. Qui è tutto autentico, e spero che rimanga così a lungo. Se ci hanno contattati da tutto il mondo, significa che abbiamo vinto. Ed è un sogno non solo per noi, ma per il rione e per la città. Ma prima di noi ci hanno creduto prima alcuni francesi molto eleganti che sono venuti a vivere qui. E poi padre Loffredo, che ha fatto un grande lavoro, e imprenditori come Ciro Poppella e Ciro Oliva. Noi ci siamo messi in scia con questa onda di entusiasmo che ha portato i ragazzi della paranza a Cannes, dove sono stati accolti con 9 minuti di applausi. E adesso tutta l'attenzione che si è accesa sul nostro ipogeo ci mette addosso un'adrenalina incredibile».

Quali sono le prime cose che avete imparato da questa esperienza?

«Ho imparato la tolleranza. Alla Sanità c'è tanto amore: dopo anni molto difficili, ora c'è un'esplosione di gioia. All'inizio mi guardavano straniti perché non sapevano il motivo per cui ero qui, ma adesso mi sento a casa».

È un modello che si può replicare anche in altre aree difficili?

«Come ho detto, il segreto sono la concentrazione di proposte culturali, che si aggiunge all'accoglienza e alla tolleranza degli abitanti. Chiese, acquedotti romani, ipogei, catacombe. Questo rione è un teatro a cielo aperto, tanto che adesso la gente vuole venire a viverci. Vengo da una famiglia che era proprietaria di alberghi a Ischia, conosco bene la materia turistica: questa vivacità e questa umanità possono cambiare il destino della Sanità e anche di altri quartieri».

Quanto merito hanno in questa metamorfosi i privati e quanto le istituzioni?

«Per la mia esperienza, direi metà e metà. Noi senza la Regione al nostro fianco non avremmo mai iniziato un progetto di restauro e di musealizzazione. Per il resto, padre Loffredo è stato abile a cercare fondi: senza le sue idee tante cose non si sarebbero potute fare. Ad esempio, quella di prendere le barche di Lampedusa e utilizzare quel legno per costruire violini e mandolini per i ragazzi delle orchestre napoletane. Quando fai le cose senza volerci guadagnare, ma animato dalla sola passione, si scatena un'energia enorme. Il motore della solidarietà è molto più potente della brama di danaro. E se i privati e le istituzioni mettono insieme le forze, si ottengono grandi risultati».

In tema di decoro urbano, dove finisce la responsabilità delle istituzioni e dove comincia quella dei cittadini?

«Qui è ancora tutto sgarrupato, e le istituzioni hanno certamente delle responsabilità. Ma se chi amministra vede che anche il cittadino ci mette il suo, si accende una scintilla. Molti abitanti non buttano più ile carte a terra, chi lo avrebbe mai detto? Sono più rispettosi perché capiscono che non vivono nel ghetto che era prima la Sanità, ma in un luogo pieno di meraviglie».

Il terzo settore colma ancora le lacune lasciate delle istituzioni?

«Sì, ma oggi mi sembra che ci siano più interesse e più attenzione. Anche altri quartieri difficili come Forcella stanno migliorando. Non dobbiamo mollare, perché se lavoriamo insieme le cose possono cambiare».

In cosa bisogna ancora migliorare per portare a compimento quel cambiamento che si è messo in moto?

«Bisogna essere uniti, questo è molto importante. I litigi portano solo alla distruzione. Quando ci si divide, si perde tutti. Ora finalmente stanno venendo fuori i tanti tesori nascosti della città e li stiamo mettendo a reddito. Ma il tesoro più bello sono le persone, la loro cordialità innata. Chi viene qui impazzisce per questo».