De Giovanni:《Per non tradire l'anima di Napoli, guardiamola nella sua complessità》

Lo scrittore: «I social favoriscono la polarizzazione e la manipolazione delle idee, il dibattito sulla città non fa eccezione. Sanare la piaga della dispersione per ridurre il gap tra le classi sociali»

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Il senso critico al posto del cacciavite, il pensiero divergente come una chiave inglese: Maurizio de Giovanni maneggia con perizia gli arnesi utili a smontare i luoghi comuni. Come un meccanico dell'indagine antropologica, li smantella un pezzo via l'altro, destrutturando i cliché su questa città in cui continua a vivere in compagnia dei suoi personaggi, dal commissario Luigi Alfredo Ricciardi all'ispettore Giuseppe Lojacono, passando per Gelsomina Settembre, detta Mina.

Perché quando la fiamma del dibattito sulla custodia del midollo morale, culturale e intellettuale partenopeo torna a farsi più viva, puntualmente spunta qualcuno pronto ad accampare un presunto diritto di proprietà. Manco a dirlo, in esclusiva. A quel punto, la divaricazione è inevitabile, e il fatto che a riproporla, stavolta, siano state le baruffe mediatiche intorno al testo di una canzone non è che una congiuntura.

Di fronte ad una semplificazione che spiana la strada alla manipolazione, l'invito dello scrittore è chiaro: guardare le cose nella loro complessità, senza farsi tentare dal magnetismo della polarizzazione alla quale i social media finiscono per istigarci ogni giorno. «Tra gli opposti, ci sono tante cose», fa notare lo scrittore, parlando delle molte Napoli di cui si compone - e si scompone - Napoli. E, prendendo le distanze da una rappresentazione che ne riduce le dinamiche ad una scissione manichea, indica una direzione per la risalita: dismettere coltelli, pistole e stereotipi per armare i ragazzi con la cultura e la consapevolezza.

De Giovanni, il dibattito intorno al testo di Geolier è l'ultimo paradigma di una diatriba sempre aperta. A chi appartiene l'anima di Napoli?

«Questo è un tema potentissimo, che apre a quello che io chiamo "il tema del grigio". I social favoriscono e alimentano una sostanziale impossibilità di dare spessore al pensiero: o sei favorevole o sei contrario, non sono contemplate le vie di mezzo. Se per esempio io dico che a Gaza è in corso un genocidio, sono non un antisionista, ma un antisemita e un antiamericano, quindi filo-russo. In realtà, ho solo detto che è in corso una strage. La stessa cosa succede con il napoletano: se ti permetti di dire che l'ortografia di un testo è inutilmente sbagliata, apriti cielo. Vero, se uno scrive in italiano "squola" con la "q", anche se la pronuncia resta invariata rispetto a quella della parola "scuola", ma non ne capisco il senso».

È quello che lei ha sostenuto a proposito del contestato testo della canzone che Geolier ha portato a Sanremo.

«È la tesi che sostengo tuttora, fortemente. Così come sostengo con forza, e senza voler inseguire alcuna popolarità, che la gestione del voto al Festival è stata truffaldina, perché questo ragazzo meritava di vincere, allo stesso modo dico che vedere il video ufficiale della canzone mi ha disorientato, in quanto esprime un concetto radicalmente diverso da quello contenuto nel testo, che parla di un superamento tutto sommato sereno della fine di una relazione, senza violenza e aggressività. Il video, invece, esprime tutt'altro linguaggio: pistole, coltelli, un omicidio-suicidio nel finale. Rilevare questa contraddizione mi pare doveroso. Non trovo giusto che per parlare con i ventenni si debba necessariamente aderire ad un linguaggio simile».

C'è un tema di incomunicabilità tra le generazioni?

«A volte comunicare è difficile, ma la voglia di inseguire la popolarità o la ricerca disperata di un terreno di dialogo con certi giovani famosi che altrimenti si perdono o non parlano con noi non possono portare ad accettare qualsiasi cosa. Credo che sia assolutamente necessario gettare dei ponti tra due generazioni che purtroppo hanno un gap molto superiore rispetto a quello che c'è stato tra tutte le generazioni passate. Io rispetto a mio padre ero molto meno lontano di quanto sono lontani ora i nostri figli da noi, poiché c'è stata un'accelerazione tecnologica, c'è una situazione di degrado e abbandono di certe zone delle città e della periferia. Questo però non deve portare all'accettazione pedissequa e supina di valori irricevibili come quelli della violenza, che non possono essere quelli del linguaggio comune. Ripeto: non mi sento, pur di trovare un terreno di dialogo, di aderire ad un linguaggio devastato, che non rappresenta alcun valore. In virtù di questa premessa, mi chiedo quale sia il messaggio della canzone di Geolier: quello del testo o quello del video? Non mi sembrano la stessa cosa».

Sui social media, che prosperano sulla semplificazione e sulla polarizzazione, si finisce spesso per tagliare i concetti e le opinioni con l'accetta

«Esatto. Invece esistono i territori intermedi, non è che uno è sempre o pro o contro. I social portano a condensare tutto in poche righe, dunque portano allo slogan. Ma lo slogan non è pensiero, lo slogan è una legge, è apodittico, nello slogan non c'è spessore. E questo riguarda tutti i temi. L'esempio di Gaza è macroscopico, ma lo stesso discorso vale per la Salis: se dico che è una cosa disumana vederla coi ceppi e che il governo deve intervenire, divento filo comunista e accetto che gli italiani vadano a picchiare manifestanti di centro destra. Ma io ho detto un'altra cosa. È mai possibile che uno non possa sostenere una cosa senza dover necessariamente sostenere tutto un sistema di pensiero che prevede migliaia di altre cose con le quali posso non essere d'accordo? È una cosa che mi sconcerta. Ecco, questo secondo me è un tema ancora più interessante rispetto alla domanda se Napoli sia di Viviani o di Geolier, una contrapposizione che io trovo non realistica».

Ai presunti depositari dell'identità di Napoli che cosa risponde?

«Che non c'è un'anima sola. È come chiedere a un uomo se sia più di sua madre o di sua moglie. Napoli è probabilmente la città più raccontata al livello di fiction, ma quale racconta la vera Napoli? Un posto al sole? Gomorra? L'amica geniale? I bastardi di Pizzofalcone? Mare fuori? Vivi e lascia vivere? Possiamo dire che qualcuna di queste non racconti Napoli? Tutte la raccontano, poiché la nostra città ha di bello e di brutto che puoi raccontare quello che vuoi. L'unica cosa che non puoi fare è dire che la tua sia l'unica Napoli degna di essere raccontata. Tra l'altro, è in atto una diversificazione delle periferie di cui si dovrebbe prendere coscienza: Scampia e il Parco Verde sono due realtà clamorosamente diverse, come lo sono San Giovanni e Casoria, Pozzuoli e Melito. Le periferie non sono tutte uguali. Per questo dico che bisogna necessariamente allargare il discorso».

È in atto una disgregazione nel corpo della città?

«C'è sempre stata, non credo che sia una novità. Io sono convinto del fatto che questa città abbia da sempre avuto una pluralità di linguaggi. E dico di più: non esistono solo due parti, ma molte più di due. Volendo localizzare le differenze socio-culturali, non esistono soltanto Secondigliano e Posillipo. Esistono il Vomero, il centro storico, Fuorigrotta. Luoghi in possesso di un'identità socio-culturale intermedia, ognuno portatore di un suo linguaggio. Ma credo che questo sia sempre accaduto. Ai tempi di Viviani, Viviani era una cosa e De Filippo un'altra. E la Serao e Ferdinando Russo un'atra ancora. Intellettuali come Compagnone, Prisco, Mimì Rea, Pomilio, Ortese esprimevano una pluralità di linguaggi. È questo che rende Napoli incredibilmente narrativa nelle sue varie forme d'arte. Oggi Gragnaniello, Avitabile, Geolier, Gigi D'Alessio, Clementino sono portatori di linguaggi diversissimi tra loro, ma tutti rappresentano Napoli. Come si può parlare di una dicotomia tra queste voci?».

Ritiene che manchi una sintonia tra le classi e tra le generazioni? La coesione sociale è un'ambizione fragile?

«Certo, ci sono gli opposti, ma in mezzo c'è tanto. A Roma, gli abitanti di Prati e Tor Bella Monaca nemmeno parlano la stessa lingua. Se prendi un ragazzo di Posillipo e lo porti a Scampia, invece, non credo che abbia tante difficoltà a parlare coi suoi coetanei. Del resto, a Mergellina nel fine settimana trovo un medley sociale molto variegato. Non so fino a che punto si possano definire opposti».

Quella della città spaccata in due, dunque, è una rappresentazione usurata?

«Sì, è una visione censitaria, che ha a che fare coi soldi. E nemmeno tanto, perché non credo che quelli che vedi in fila da Gucci a via dei Mille siano di Chiaia, così come nei ristoranti stellati non vedo entrare gente in smoking. Insomma, non vedo barriere, compartimenti stagni tra un quartiere e l'altro. E non è necessariamente un fatto positivo. Vedo, piuttosto, un tema di grande trascuratezza urbanistica, un abbandono delle periferie che è trasversale alle giunte, una situazione di dispersione scolastica gravissima alla quale le istituzioni non pongono rimedio. Ed è il tema fondamentale: 4 ragazzi su 10 non vanno a scuola nell'età dell'obbligo. Se un ragazzo a Monza non va a scuola per due settimane, lo vanno a prendere a casa i vigili urbani. Questo da noi non accade. Se tu non togli quei 4 ragazzi su 10 dalla strada, li consegni nella migliore delle ipotesi al lavoro nero e nella peggiore alla criminalità organizzata, con in mezzo tutte le declinazioni possibili della delinquenza. Di questo passo, non avremo mai una situazione migliore. Di questo si dovrebbe parlare, perché francamente, grazie a Dio, non credo che un ragazzo di Ponticelli oggi abbia una barriera sociale che gli impedisce di frequentare una ragazza del Vomero. Non servono 500 poliziotti che fanno le operazioni alle 5 del mattino, ma 500 assistenti sociali che lavorano sul territorio, 500 maestri in più, professori meglio pagati, tempo pieno, edilizia scolastica, spazi dove i giovani possano incontrarsi. Su questo si dovrebbe puntare, non certo al disarmo fisico».

Chi sostiene che il turismo di massa ha inquinato la nostra identità ha ragione?

«Il turismo è una risorsa economica. Sento questo pianto greco sui bed and breakfast, sulle pizzette, ma io sono cresciuto in una Napoli dove dopo le otto di sera al centro storico non si poteva andare. Quindi, mi chiedo in cosa stiamo peggio di allora. Capisco che sarebbe auspicabile un turismo di livello più alto, ma è meglio che non averlo. Ho sentito dire con tristezza che stiamo diventando come Barcellona. Io rispondo: magari! Trovo questo tipo di pensiero molto grossolano. Dicono che via Toledo è diventata il regno delle pizzette, che i Quartieri spagnoli sono diventati tutti un bed and breakfast. Era meglio quando erano all'ordine del giorno gli scontri tra le gang coi coltelli? Erano meglio i bassi con 18 persone che vivevano in una stanza? Se rivogliamo la Napoli di dieci o venti anni fa, qualcuno mi deve spiegare perché è preferibile».

In alcune aree, il boom turistico ha indotto un'autentica bonifica sociale.

«Chiaro, c'è stata una convenienza da parte degli abitanti che prima vivevano di espedienti illegali: ora guadagnano di più. Il turismo lo vedo come una cosa bellissima, non ci piangerei. Comporta una fortissima rivalutazione del nostro patrimonio culturale, che era totalmente allo sbando. Qualcuno mi dovrebbe spiegare che cosa c'è di brutto in esperienze come quelle della chiesa di Santa Luciella, affidata a una cooperativa di ragazzi, delle Catacombe di San Gennaro, della Sanità, che è diventata all'improvviso come Montmartre».

Si dice da tempo che l'élite culturale ed economica partenopea tenda a farsi i fatti suoi: è d'accordo?

«Questa è una cosa vera e assolutamente permanente. È quella che chiamo la sindrome di Palazzo Serra di Cassano. La storia del portone di Palazzo Serra, sbarrato dal 1799, è eloquente, in questo senso, rappresentando una sorta di rinuncia dell'aristocrazia napoletana alla partecipazione civile. Quell'atteggiamento è rimasto: la borghesia napoletana non chiede voce in capitolo nella gestione della società. È un dato endemico, e purtroppo non vedo cambiamenti. Anzi, è sempre più radicato, in parallelo ad un clamoroso invecchiamento anagrafico delle classi più benestanti, che non fanno figli, mantengono i soldi nelle proprie mani e vivono di più. Questo implica un innalzamento dell'età media: se cammini per Chiaia o per il Vomero vedi tutti vecchi, a cominciare da me. Ci sono pochissimi ragazzi, pochissimi bambini. Anche perché nelle zone residenziali cresce enormemente il prezzo a metro quadro, e in quei quartieri le case se le possono permettere solo famiglie consolidatissime sul piano economico».