Fatigato: «Gli usi temporanei per restituire alla città i luoghi negati»

La studiosa: « Contro il degrado, convenzioni per estendere lo strumento agli edifici privati»

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Dietro la speranza di recuperare un tempo che sembra perduto e di dare senso e identità a spazi intrappolati in un'eterna transizione, c'è qualcosa in più di un modo per rimpiazzare il «sempre» con l'«intanto». Gli usi temporanei e quelli transitori sono occasioni per far dialogare soggetti che non sempre si parlano e per concretizzare progetti in divenire, modulabili e scalabili, esplorando modalità inesplorate. Una terza via, insomma, che può aprire una finestra su un futuro che oggi non si vede.

Temi che Orfina Fatigato, professore associato in Composizione Architettonica e urbana alla Federico II, ha investigato a fondo nel living lab dal titolo "Abitare la città in transizione. Progetti evolutivi per il riuso di grandi contenitori urbani" nell'ambito del Festival dell'Architettura "Territori plurali" (www.campanicaarchitettura.it), che si è tenuto a Napoli dal 15 al 28 aprile. Uno spazio di confronto che ha consentito di condividere esperienze e idee sul destino prossimo venturo dei contenitori dismessi della città di Napoli.

Sono molti, a Napoli e non solo, i progetti di rigenerazione più volte annunciati e mai realizzati. Quella degli usi temporanei può essere la via transitoria e innovativa per uscire dall'incompiutezza?
«Non esattamente: i programmi sperimentali per gli usi temporanei possono costituire occasioni importanti per attivare processi che possano innescare progettualità aperte e implementabili, interessi e partecipazione da parte di molteplici attori (amministrazioni locali, soggetti del terzo settore, utenti e/o abitanti, imprenditori, associazioni, etc.), ma sicuramente essi non si sostituiscono alla necessaria programmazione e attuazione di interventi e progettualità sul medio/lungo periodo, di cui piuttosto possono configurarsi come propulsori iniziali. È importante a questo proposito anche sottolineare la differenza tra i termini "temporaneo" e "transitorio", che vengono talvolta usati come sinonimi, ma che in realtà rimandano a finalità, percorsi e strategie differenti. Evidentemente entrambi, in riferimento al tema della rigenerazione urbana, mobilitano la dimensione temporale come materiale attivo del progetto per la riattivazione di spazi, talvolta vuoti e/o sottoutilizzati, ma mentre il termine "temporaneo" indica durata limitata nel tempo di usi e programmi, in intervalli più o meno estesi, il termine "transitorio" rimanda in maniera più chiara al valore che l'operazione, anche se limitata temporalmente, può acquisire in un processo sviluppato e articolato nel tempo. La transitorietà, più che la temporaneità, allude alla possibilità che l'operazione di rigenerazione si inscriva in un processo articolato, tra un "prima" e un "dopo", di cui può rappresentare un innesco verso il cambiamento. L'aggettivo "transitorio" sottolinea che il programma non si configura unicamente come occasione per alternare e/o giustapporre nuovi e diversi usi al fine di animare i luoghi e gli spazi, ma che possa anche essere strumento per interrogare i territori, accogliere e sperimentare usi possibili, iscrivendosi in un processo ricognitivo e propositivo ben radicato nel programma anche a lungo termine di trasformazione e di rigenerazione dei contesti. Gli usi transitori possono essere l'occasione per guardare e interpretare le istanze del cambiamento talvolta sottese dei territori, per sperimentare usi innovativi possibili, per acquisire indicazioni utili riguardo le trasformazioni e progettualità da attivare sul medio e lungo periodo. Oltre dunque l'estemporaneità dell'evento, l'uso "transitorio" può divenire strumento utile per progettualità innovative nel modo di istruire e avviare il processo del "progetto di trasformazione " a medio e lungo termine».

La Regione Campania e il Comune di Napoli, analogamente a quanto è in corso di sperimentazione in altre realtà, hanno inteso disciplinare gli usi temporanei per gli spazi pubblici e gli immobili di proprietà pubblica: è un modello che può funzionare anche da noi?

«La Regione e il Comune stanno facendo un importante lavoro per attivare e testare lo strumento degli usi temporanei. Si tratta senza dubbio di una piccola rivoluzione culturale che riconosce e legittima la possibilità di "aprire le porte" di luoghi e architetture negati alla città e ai suoi abitanti: riconquistare i vuoti, gli spazi e le architetture negati divengono affermazioni di un più ampio "diritto alla città" anche come luogo di sperimentazione. Praticare lo spazio abbandonato è un atto politico di emancipazione dal determinismo della città capitalista che ha ampiamente dimostrato - e naturalmente parlo in generale non riferendomi unicamente alla città di Napoli - le proprie criticità. Quantità impressionanti di metri quadrati, meglio direi di metri cubi di spazio, in disuso affastellano città e metropoli contemporanee e il processo non sembra destinato a regredire. Si pensi a come il cambiamento dei modi della produzione abbia portato alla dismissione di numerose industrie e infrastrutture nella città postfordista e a come, più recentemente, la radicale modifica nella organizzazione del lavoro stia già da qualche tempo - con una impressionante accelerazione a seguito della crisi sanitaria Covid-19 - portando allo svuotamento di interi immobili destinati a uffici e al terziario che si aggiungono alle quantità di metri cubi in attesa di nuovi usi delle nostre città. Per tornare alla sua domanda, certamente mi auguro che le politiche per gli usi transitori possano funzionare, ma credo che ci sia bisogno di un lavoro capillare di comunicazione e di diffusione in grado di riuscire a coinvolgere molti soggetti e realtà diverse per testare questa nuova possibilità. Occorrerà incentivare la creazione di soggetti compositi (associazioni, terzo settore, imprenditori, etc.) in grado di proporre, per gli anni della messa a loro disposizione del "bene", azioni finalizzate al perseguimento di obiettivi socio-economici e ambientali di interesse pubblico, capaci di autosostenersi ma anche, possibilmente, di generare nuovi e virtuosi processi economici. Gli spazi vuoti e le architetture dismesse che potranno esser messi a disposizione saranno da intendersi come delle "riserve urbane" per sperimentare obiettivi condivisi e anche per dare spazio a sogni e ambizioni che a volte nelle nostre città non trovano più spazio per "essere"; potranno servire per accogliere e consentire la evoluzione e sedimentazione di un importante capitale sociale. L'efficacia della rete di attori molteplici e differenziati è fondamentale per uscire dalla logica del singolo intervento sporadico e per sperimentare un altro modo possibile di abitare la città e di contribuire "insieme" alla sua trasformazione».

In che cosa consiste e come si attua concretamente questa soluzione? Si applica in modo diverso a seconda che si tratti di beni pubblici o privati?

«La normativa attualmente in fieri a Napoli e in Campania fa riferimento ai beni di proprietà pubblica. Credo che la sperimentazione potrebbe essere estesa anche a beni di proprietà privata in disuso che sappiamo essere -  in alcune aree della città (si pensi a Napoli Est) - addirittura più numerosi di quelli pubblici. Si potrebbero sperimentare forme di convenzionamento tra il Comune e i soggetti privati, ma resterebbe comunque da fare, caso per caso, un'attenta analisi costi/benefici pubblici. Anche il vuoto ha un "costo" economico, oltre che sociale (tasse, sorveglianza, manutenzione): il degrado architettonico e urbano impatta quindi sulle rendite e sui valori urbani. Può avere senso per il privato contribuire - anche solo in maniera indiretta, consentendo per esempio l'uso transitorio di un bene di sua proprietà non utilizzato - a processi di rigenerazione urbana sperimentali? Le esperienze europee ci insegnano che il riscontro è positivo».

Il Festival dell'architettura che di recente si è tenuto a Napoli ha proposto un approfondimento sul tema. Quali considerazioni e proposte sono emerse?

«Nell'ambito del Festival dell'Architettura "Territori plurali" ho curato insieme al professor Gianluigi Freda uno dei sei Living Lab, diffusi nel territorio della Regione, che si è tenuto a Napoli presso l'ex Chiesa dei Santi Demetrio e Bonifacio (sede del Dipartimento di Architettura). Nel quadro del più ampio tema sulle "Riscritture urbane", abbiamo inteso porre al centro dei lavori, durante il Festival, il tema del patrimonio immobiliare abbandonato della città metropolitana di Napoli.  Il Living Lab, cui abbiamo dato il titolo "Abitare la città in transizione. Progetti evolutivi per il riuso di grandi contenitori urbani" si è interrogato -  e stiamo continuando a lavorare in questa direzione - sui processi di trasformazione dei grandi contenitori dismessi della città di Napoli a partire dalla attivazione di possibili usi transitori, con l'obiettivo di sperimentare la co-creazione di programmi innovativi, di nuove forme di accoglienza per "riabitare insieme", proponendo, a partire dagli usi transitori, strategie di trasformazione aperte e incrementali nel tempo. Ci siamo concentrati in particolare nell'area che dal centro antico si espande verso Est sino a San Giovanni a Teduccio. Abbiamo istruito un lavoro di mappatura di immobili in disuso con la costruzione di schede analitiche e interpretative dei diversi edifici anche nella prospettiva di verifica delle effettive possibilità (rispetto alle previsioni in atto, alle proprietà, allo stato di degrado e al carattere degli immobili, etc.) di una loro iniziale rigenerazione mediante l'attivazione di strategie integrate fondate sugli usi transitori. Nell'ambito del Living Lab abbiamo poi spinto la lettura e le proposte di scenari progettuali possibili su alcuni edifici molto diversi tra loro, indagati anche grazie alla lente fotografica attenta e poetica dell'architetto fotografo Mario Ferrara tra cui: l'ex Mercato Ittico, alcune torri del Centro Direzionale, un edificio polifunzionale nel quartiere di Poggioreale, l'emiciclo di via Arenaccia: tutti edifici vuoti, contenitori in attesa, molto differenti tra loro per tipologia, stato di conservazione, proprietà, usi e funzioni acquisite nel tempo, caratteri costruttivi, a cui abbiamo guardato tutti come a dei "metri cubi in transizione". Il lavoro è stato orientato a testarne il potenziale in una logica di attivazione e trasformazione degli spazi evolutiva e incrementale nel tempo. Sono emerse, anche dal confronto tra tecnici, abitanti e associazioni che hanno partecipato al Living Lab, idee interessanti sui possibili programmi in funzione delle diverse qualità spaziali degli edifici e dei caratteri diversi dei contesti in cui si iscrivono, e degli interessi potenziali anche economici attivabili a differenti scale. Momento particolarmente significativo del Living Lab, nelle due settimane del Festival, è stato l'incontro con Mathias Rouet, uno dei fondatori dello studio francese Plateau Urbain, molto noto in Francia anche per la originalità della professionalità specifica acquisita in questi ultimi dieci anni. In effetti Plateau Urbain è ad oggi una cooperativa (come amano definirsi) di circa settanta professionisti che si occupa più specificatamente di incrociare domanda e offerta di spazi, attraverso la acquisizione e la gestione di spazi e architetture vuoti e in disuso. Abbiamo invitato l'urbanista Mathias Rouet a Napoli per illustrare il loro lavoro innovativo e abbiamo organizzato con lui alcune attività laboratoriali. Abbiamo simulato l'avvio di possibili processi di transizione di edifici vuoti a Napoli testando alcune delle metodologie di lavoro di "Plateau Urbain". Il living lab sta continuando il lavoro di ricerca legato al tema, integrando conoscenze e ipotizzando alcune possibili strategie di intervento per i contenitori vuoti individuati. Abbiamo riscontrato interesse da parte di attori diversi sulle potenzialità degli usi transitori come attivatori di processi, ma anche la necessità che si sedimentino culturalmente alcune questioni e si chiariscano intenzionalità e approcci affinché si possa agire in maniera più integrata e sistemica. Ci sembra ci sia tanto da fare, il dibattito è aperto, siamo soddisfatti di aver contribuito ad alimentarlo con il lavoro del Living Lab per il Festival dell'Architettura».

Qual è il bilancio negli altri Paesi che hanno già adottato da tempo questo istituto?

In Francia, paese che nel panorama europeo è tra i più avanzati riguardo la sperimentazione sugli usi transitori, il tema è a tutti gli effetti un istituto ormai acquisito dal pubblico e dal privato come fase chiave d'avvio di molti programmi di trasformazione e di rigenerazione urbana. Negli anni di lavoro e di ricerca in Francia ho potuto studiare e approfondire il tema attraverso un lavoro sul campo di osservazione di diversi casi studio, che da sperimentazioni iniziali sono diventati, col passare degli anni, dei modelli di riferimento nel dibattito internazionale, come i noti progetti Les Grands Voisins (Parigi), la Friche la belle de mai (Marsiglia), La Halle Girondins a Lione.

Dalle prime sperimentazioni informali e autonome si è passati nell'arco di una decina di anni alla strutturazione a diversi livelli delle regolamentazioni per la disciplina degli Usi transitori e alla costruzione di reti tra gli attori delle diverse sperimentazioni.

Una serie di leggi, già a partire dal 2016, segnano il passaggio in Francia dalla "cultura della regola" alla "cultura degli obiettivi": ovvero come consentire di procedere, per tempi contingentati, prefissati e normati, alla deroga dalle normative urbanistiche e edilizie vigenti al fine di consentire l'attivazione di spazi e edifici vuoti attraverso gli usi transitori, in virtù del riconoscimento della capacità di rispondere, attraverso tali usi, ad obiettivi sociali, economici e ambientali più ampi di interesse pubblico. Un esempio: consentire l'accesso n edifici, abbandonati e/o vuoti, non rispondenti alle regolamentazioni riguardo gli standard abitativi e il risparmio energetico, in nome della capacità, attraverso le sperimentazioni di nuovi usi, di perseguire l'obiettivo più generale di sensibilizzazione sui temi della sostenibilità socio-ambientale. Patrick Bouchain, Grand prix de l'urbanisme 2019, pioniere del tema, è l'ideatore del cosiddetto "permis de faire", un principio chiave che legittima la necessità di sperimentare nuovi usi per la riattivazione del patrimonio abbandonato. Principio introdotto nell'aggiornamento della Legge dello Stato sulla Liberté de création, à l'architecture et au patrimoine (2016). La legge riconosce l'aspetto creativo e sperimentale dell'architettura e all'art. 88 legittima il "permis d'expérimenter", ovvero la possibilità di dare agli attori (abitanti, enti locali, terzo settore, imprenditori, etc.) l'occasione di verificare quello che Bouchain chiama "il possibile ignorato". Accordare dunque il permesso, anche in deroga dagli strumenti normativi, di sperimentare delle progettualità in luoghi in attesa e spendere un tempo variabile secondo i casi (fino a un massimo di sette anni) per valutare gli impatti di varia natura prodotti dalla sperimentazione».

Che tipo di sperimentazioni hanno avuto successo in Francia? Qual è il ruolo degli architetti e degli urbanisti in questo tipo di operazioni?

«Le operazioni sono state davvero numerose negli ultimi dieci anni. Il lavoro pionieristico condotto da Bouchain, da più di trent'anni, ha senza dubbio aperto la strada alla sperimentazione sul tema. Sono numerosissimi nel panorama francese i collettivi interdisciplinari (di architetti, urbanisti, programmatori, artisti, etc..) che lavorano a vario titolo nell'ambito della ricerca, formazione universitaria e professionale sul tema degli usi transitori. Solo per citarne alcuni, Yes We camp, Plateau Urbain, Encore Hereux, Communa, etc.. Gruppi che sono diventati a tutti gli effetti nuovi attori "immobiliari", come preferiscono autodefinirsi, della città, in grado di portare avanti consistenti investimenti per l'uso transitorio di immobili pubblici e privati, riqualificare spazi testandone nuove potenzialità, e di generare economie innovative, come dimostrato dal recente studio dell'Apur (Atelier parisienne d'urbanisme) redatto in questo mese. Tra le operazioni più riuscite Les Grands Voisins a Parigi, ex Ospedale Saint Vincent de Paul, tre ettari e mezzo abbandonati in pieno centro città, la cui storia si articola in due fasi fondamentali: la prima in cui le associazioni e i collettivi coinvolti hanno iniziato a occupare e gestire lo spazio abbandonato in autonomia, la seconda in cui il Comune di Parigi e la regione Ile de France, alla luce della riuscita della sperimentazione in atto in termini di coesione sociale, innovazione economica, sperimentazioni sul possibile riuso degli edifici (di cui era prevista inizialmente la completa demolizione), hanno esteso il tempo concesso per gli usi transitori e sostenuto economicamente lo sviluppo ulteriore dell'operazione diventando tra gli attori coinvolti nel processo. La fase degli usi transitori si è conclusa nel 2022 e attualmente il progetto della Zac Saint Vincent de Paul, che prevede la costruzione di un eco-quartiere, è tra le più innovative, anche in riferimento ai principi di mixité sociale che gli anni di occupazione tramite l'uso transitorio hanno contribuito a consolidare. Ad una lettura rapida, questo tipo di operazioni diffuse ormai in tutta la Francia possono sembrare molto simili tra di loro e lontane dall'essere "materia di lavoro" per chi si occupa di progetto architettonico e urbano. Sento di poter invece affermare assolutamente il contrario, sottolineando diversamente come queste pratiche, ormai consolidate altrove, abbiano generato nuove fasce di mercato, nuovi interessi, nuove modalità di trasformare e di agire sull'esistente, e dunque la richiesta di nuove professionalità. Tutti i collettivi sopra citati sono gruppi interdisciplinari in cui fondamentale è l'impegno di urbanisti e architetti, chiamati a testare e declinare il sapere disciplinare in azioni collaborative e adattive. Questi edifici in disuso, terreno di sperimentazione per gli usi transitori sono noti in Francia come "tiers lieux", ovvero luoghi terzi in cui oltre l'abitare e il lavorare, si sperimenta l'ibridità dei programmi e soprattutto l'incrementalità, imprevedibile a priori, nella trasformazione degli spazi. E proprio La nozione di "indeterminatezza", che anima e che è in parte la chiave di riuscita di questi tiers lieux, sfida le discipline del progetto a prefigurare sistemi adattivi, aperti all'imprevedibile, e a imparare ad agire dunque all'interno di un ossimoro problematico ma in grado di aprire numerose possibilità.

Le relazioni, i legami sono in continua mutazione e trasformazione, ed è come se si richiedesse al progetto di questi spazi la necessità di restare in parte "aperto" per evolvere, mutare, adattarsi nel tempo in sintonia con gli uomini, con il "vivente" che lo abita».

Non crede che con la pratica degli usi temporanei il rischio di convertire in definitivo quello che si battezza come temporaneo?

«Se ciò dovesse accadere le responsabilità sarebbero politiche. Condivido quanto sostenuto dall'assessore Discepolo nella intervista rilasciata per Nagorà la scorsa settimana, al punto in cui sottolinea come l'uso transitorio non debba sostituirsi all'assunzione della responsabilità politica di decisioni in un quadro più generale. Ed ancora quanto sostenuto, sempre in una recente intervista per Nagorà, dall'assessore Lieto lì dove sottolinea come il Comune stia procedendo nel lavoro istruttorio per la valutazione delle proposte di usi transitori, oltre che per la loro valenza in sé, anche per la capacità che hanno di inscriversi nei processi di trasformazione previsti.

Ritengo inoltre che, come molti esempi riusciti in Europa dimostrano, gli usi transitori acquisiscano senso se riescono a farsi interpreti di obiettivi di interesse collettivo più generali che le amministrazioni pubbliche locali dovrebbe contribuire in maniera insostituibile a delineare e proporre».