Fuoco (amico) su Napoli

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A chi appartiene l'anima di Napoli? Chi sono, ammesso che esistano, i depositari di quel patrimonio immateriale che, saldandosi con quello artistico, culturale, paesaggistico, enogastronomico, richiama torme di visitatori negli stessi vicoli ai quali, in un passato non molto lontano, neanche si accostavano?

Di quale sostanza è composto lo Spiritus Neapolis? Chi lo orienta, chi lo incarna e lo rappresenta? Gli autoproclamati custodi di un ancien régime abbarbicato alla tradizione o le avanguardie eterodosse della città che muta pelle, voce e codici? E di chi è, appunto, quel dialetto dai tratti così universali da indurre qualcuno ad elevarlo al rango di lingua? Di Viviani o di Geolier, di Eduardo o di Clementino, di Pino Daniele o di Luchè?

Il quesito è tornato ad occupare il dibattito pubblico nei giorni prima, durante e dopo Sanremo. E dalla vetrina più rutilante che l'Italia sappia apparecchiare è rimbalzato fin quaggiù, tanto da traslocare la Questione meridionale all'ombra del Vesuvio, fino a derubricarla a Questione partenopea. Al Festival della canzone italiana il rapper Geolier, che aveva conquistato e riempito lo stadio della sua città e scalato le classifiche degli streaming ben prima di calcare il palco dell'Ariston (oggi il sold out al Maradona è triplice: al 21 giugno si sono aggiunte le date del 22 e del 23, ndr), avrebbe potuto far gonfiare il petto alla sua gente. Tutta, con un moto d'orgoglio trasversale.

Invece, nel momento della consacrazione nazionalpopolare, quella reciprocità perduta dai due protagonisti del contestatissimo testo - "I p'me, tu p'te" - si sgretola miseramente anche fuori dalle rime della canzone. Per dirla con Antonio Capuano, uno che sa come si fanno dialogare l'alto e il basso, quel popolo ancora una volta «si disunisce». E, quasi come a voler rendere omaggio al titolo del brano arrivato secondo nella gara sanremese, si divarica in fazioni l'una contro l'altra (verbalmente) armate intorno all'estetica di un vernacolo aggiornato e per molti trasfigurato. Salvo poi ricompattarsi di fronte alle ombre dell'ostracismo nordista, lunghe come i fischi del pubblico nella serata dedicata alle cover.

Così capita di scoprire che i nemici ce li hai in casa. Al grido di «Napoli non siete voi» si levano gli scudi dei puristi, che con una smorfia di disgusto misto a sufficienza ripudiano i rapper di periferia, rei di porgere al resto del mondo il volto deformato di una città sempre in cerca di un riscatto e di un'assoluzione.

In un corpo sociale spaccato in due come una mela tagliata con l'accetta, l'identità, che pure dovrebbe essere capitale comune e condiviso, resta contesa tra i salotti dell'aristocrazia e le banlieue di un sottoproletariato senza voce e senza orizzonte che adesso quella voce la reclama e la fa sentire forte attraverso il canto sincopato di un ragazzo di Secondigliano. Lo scontro, dunque, si rinnova: da una parte un notabilato ripiegato sui propri interessi; dall'altra una classe subalterna che stilla rabbia e frustrazione. Del resto, la "città porosa" appare bifronte anche sul piccolo schermo: a quella leggera e scanzonata di "Un posto al sole", la più longeva tra le soap tv italiane, si contrappongono gli intrecci criminali di "Gomorra" e "Mare fuori".

Un'antinomia che trova la sintesi in due vicende divergenti e contigue. La Napoli dei figli del 2000 è quella di Emanuele-Geolier e di Giovanbattista-Giogiò, uniti dall'anagrafe e da una passione, e si racconta attraverso la musica secondo la dialettica degli opposti, tra successo e fallimento, esaltazione e disperazione. Vita e morte. La coincidenza, forse, vuole dirci qualcosa. Prima di tutto che le due Napoli in cui si scompone Napoli spesso si scrutano a distanza con sospetto, raramente s'incontrano e qualche volta, come in questo caso, si scontrano. Poi, che a queste latitudini la coesione sociale è un'ambizione fragile. Perché lì in mezzo, tra la miseria e la nobiltà, resta un vuoto desolante che nessuno pare in grado di colmare. Una frantumazione che degenera in lotta di classe e che le zuffe mediatiche intorno a una canzone e i dissidi intestini sul copyright culturale e la proprietà morale della res neapolitana, amplificati dalla grancassa dei social, finiscono per sublimare.

Eternamente divisa tra i poli opposti delle sue contraddizioni, Napoli sfida sé stessa e la propria sorte - quella buona e quella cattiva - in nome di un'identità che si va sfarinando, schiacciata com'è tra globalizzazione e gentrificazione. Per questo, che si stia dalla parte di Geolier o no, che ci si iscriva al partito della conservazione o a quello del riformismo, che ci si professi ortodossi o eretici, la vera sfida, la sfida di tutti, è quella di ricomporre il tessuto connettivo della città, ristrutturando una sintonia non solo tra le classi, ma anche tra le generazioni, promuovendo uno scambio costante, autentico, profondo tra chi ha di più e chi ha di meno, chi sa di più e chi sa di meno, chi ha vissuto a lungo e chi ha ancora tutta la vita davanti. Affinché domani, al grido di «Napoli siamo noi», nessuno si senta escluso.