Carlo De Luca

Controvento
di Carlo De Luca, presidente InArch Campania

I piedi piantati nella storia, lo sguardo rivolto al futuro

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Ripartenza, ricostruzione. Sono le parole che riecheggiano più spesso in questi primi giorni dell’anno, ancora dentro la più grave pandemia del secolo.  Utilizzati soprattutto quando si tratta di terremoti o altri eventi distruttivi, naturali o meno, che segnano la vita delle comunità. Come il terremoto che, poco più di quaranta anni fa, sconvolse la Campania e la Basilicata e su cui, proprio per l’anniversario del 23 novembre scorso, numerose sono state le occasioni per una discussione e un bilancio. L’ennesimo, dopo tanti anniversari trascorsi, ma probabilmente quello più lucido e distaccato, forse per una maturata attitudine alla distanza, in questo caso temporale. Ogni ricostruzione ratifica un passaggio, tra un prima e un dopo, sviluppandone gli effetti nel tempo. E pensando alla ricostruzione delle aree interne (per Napoli bisogna fare un discorso a parte), ci chiediamo oggi come vivono quelle comunità, quali effetti ha determinato la ricostruzione sulle loro esistenze.   

È un viaggio alla ricerca della memoria perduta, in paesi per la maggior parte ricostruiti, lontani dai centri originari spesso completamente distrutti o abbattuti successivamente al sisma. Come Laviano, un paese dalle origini molto antiche, posto al confine tra la provincia salernitana e quella avellinese, gravemente colpito dal sisma in termini di vittime e di edifici crollati. Completamente ricostruito in una zona pianeggiante poco distante, è un paese nuovo, anonimo, una grande periferia senza identità e senza nessuna relazione con il vecchio borgo che sorgeva sulla collina, subito sotto le vestigia dell’antico castello medievale che ancora oggi, restaurato, domina la valle. Al nuovo paese ricostruito fa da contraltare il “villaggio antistress”, l’insediamento degli alloggi provvisori, un piccolo borgo di casette in legno realizzato a valle e ancora oggi esistente, utilizzato come occasione alternativa per chi vuole allontanarsi dallo stress metropolitano.

Nuovi paesi ricostruiti e delocalizzati, con insediamenti sovradimensionati, benché pianificati. Paesi fantasma, con ricostruzioni architettonicamente discutibili, quasi sempre inadeguate ai luoghi, prove muscolari di architettura moderna con modelli abitativi senza anima. È l’atopia delle aree interne, dove il senso di spaesamento è il carattere prevalente, che si ritrova simmetricamente in alcuni casi anche nelle ricostruzioni realizzate “dov’era, com’era”, identiche all’originale. Perdendo ancora una volta una grande opportunità. Quella di una ricostruzione attenta,  ottenuta attraverso la difficile ricerca di un equilibrio tra la necessità di conservare la memoria dei luoghi e la capacità dell’architettura contemporanea di rispondere ai bisogni attuali delle persone, attraverso spazi, forme e luoghi dell’abitare contemporaneo.

Si dice che l’esperienza aiuti a non compiere gli stessi errori, ma per le ricostruzioni nel nostro paese non sembra sia andata così. Poco più di dieci anni prima dell’Irpinia, un terremoto colpisce nel 1968 il Belice, un’area della Sicilia Occidentale con comuni di piccole e medie dimensioni, tra cui il centro di Gibellina, completamente distrutto. Anche qui si decide di abbandonare il sito originario e ricostruire il nuovo paese a circa 20 chilometri di distanza. Alla ricostruzione partecipano i più importanti nomi internazionali dell’architettura e dell’urbanistica moderna che realizzano la Nuova Gibellina. Una ricostruzione “esperta” che tuttavia smarrisce completamente il senso e la memoria dei luoghi, realizzando un paese con gli stessi limiti di quelli ricostruiti in Irpinia, con qualche prova d’autore in più. Il sito del paese originario diventa invece l’occasione di un intervento di Land Art ad opera di Alberto Burri, uno degli artisti più importanti del Novecento, che riproduce sulla cresta della collina il Grande Cretto, esattamente sull’impianto storico del paese originario. Nell’arco di cinque anni, a partire dal 1984, Burri, l’artista dei legni e delle plastiche, raccoglie tutte le macerie e le rovine del paese distrutto e, lavorando su una superficie di circa 80 mila metri quadrati, riproduce l’antico insediamento del paese con grandi contenitori di cemento bianco che, riprendendo l’immagine dirompente della terra spaccata dal sole, alludono alla forma degli edifici originari, con un’altezza da terra tale da camminarci dentro. Un potente gesto visionario che, quasi come un risarcimento, recupera e valorizza la memoria dei luoghi, conservando per sempre la testimonianza del passato. Le rovine, dice Marc Augè, sono un invito a sentire il tempo e l’arte ne ha bisogno per restituire quel tempo a chi lo ha abitato. Burri trasforma quella mancanza in un luogo che dialoga con il territorio, definendo un nuovo, inedito, paesaggio della memoria.

Oggi l’atteggiamento nei confronti delle aree interne è profondamente cambiato. Una maggiore consapevolezza guida alcuni degli interventi più recenti, nel rispetto dei luoghi e delle persone, con i piedi ben piantati nella storia, ma con uno sguardo rivolto al futuro. Un segnale incoraggiante, in epoca di ripartenze e ricostruzioni.