L'altro Capodanno di Napoli

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Che forma ha la felicità? Dipende dalla latitudine. In qualche angolo del mondo può somigliare ad una bolla che prende sostanza un po’ alla volta per poi esplodere all’improvviso, in un altro assume le fattezze di un’entità immanente ma impalpabile: si manifesta sottotraccia, senza palesarsi. In altri posti, invece, prorompe inattesa come una mareggiata fuori stagione e si sgonfia poco a poco nella risacca. Poi ci sono luoghi dove quell’ebbrezza che ti eleva allo stato di grazia è stata inseguita così a lungo, e così invano, che quando riesci ad afferrarla quasi non ci vuoi credere. Al punto che, mentre ti stropicci gli occhi per provare a te stesso di essere sveglio, sembra sfuggirti dalle mani.

Che temperatura ha la felicità? A volte è magma incandescente, ma in certi casi è tiepida, come quella di chi, appunto, non riesce a credere alla propria impresa. Che sapore ha la felicità? Per qualcuno è una prelibatezza da menù stellato, roba per palati fini alla quale prima o poi ci si abitua. Altre volte è il pasto eccezionale del povero in canna che si è arrabattato per una vita e si accomoda finalmente alla tavola dei signori. Se non sei avvezzo alla nobiltà, però, può essere che nell’estasi che fa esultare le papille risalga pure il retrogusto dei bocconi mandati giù fino al giorno prima. Così la felicità diventa un calice dolcissimo iniettato d’amarezza. L’altra faccia della malinconia. Quanto dura la felicità? Spesso, non più di un lampo, come si legge sulla carta velina che avvolge i cioccolatini. Ma se entri nelle sue grazie, se le stai simpatico, se le ispiri tenerezza, può capitare che decida di fermarsi a banchettare con te.

In questo risveglio da Campioni, mentre sul Vesuvio sbadiglia l’alba di un nuovo giorno che promette di essere un giorno nuovo, con le strade spopolate e le metro mezze vuote, il corpo della città prosciugato della sua inesausta energia cinetica e con l’entropia che si è dispersa a notte alta in mille rivoli e in mille vicoli, Napoli inaugura il suo Capodanno ansiosa di specchiarsi nelle celebrazioni dei giornali. E all’indomani di un tripudio che ha punteggiato d’azzurro ogni angolo, dopo aver riempito il cielo del suo canto e dei fuochi che teneva stipati per il giorno della festa, riscopre per un giorno la carta stampata. Insomma, l’anno nuovo è arrivato e ha portato in dote un miracolo nel miracolo, coi quotidiani cittadini e quelli sportivi polverizzati ovunque in poche ore e la gente che fa la fila alle (ormai poche, per la verità) edicole che non hanno ancora ammainato la bandiera di una resistenza sempre più strenua. Roba che non si vedeva da decenni, come lo scudetto. «Dovrebbe vincerne uno ogni giorno», dice l'edicolante per significare l’impossibilità che il suo personalissimo miracolo si perpetui.

Nel giorno in cui assapora il primo tepore di una primavera che sa di autentica e duratura rinascita, la città si immerge nel suo lungo sabato del villaggio, cominciato in un giovedì sera irreale e sospeso. Anche questa volta «na sera ‘e maggio», come trentasei anni fa, quando successe quello che mai era accaduto prima. Un sabato che durerà fino a domenica, e forse oltre, in cui la festa che è prepara e annuncia la festa che sarà, in un loop di euforia che si autoalimenta. Mentre smaltisce la sbronza del primo giorno, il popolo invita l’ospite d’onore ad accomodarsi a capotavola per questo baccanale che vorrebbe non finire mai. La esorta a restare, le chiede di fermarsi ancora un po’. Lei, che mancava da così tanto e chissà quando tornerà. «Quanto costa la felicità?» cantilenava Pino, capopopolo della Nazione napoletana. La risposta la trovi in un passato che oggi sembra più lontano: trentatré anni di patimenti e frustrazioni, di speranze tradite e angosce rinnovate. Costa molto, la felicità. Ma quando arriva così non ha prezzo.