Liuti (Centrale Rischi Finanziari): «La prudenza tutela gli italiani. In Campania l'indebitamento più basso, ma anche i redditi sono al minimo»

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Le famiglie rintanate nel loro guscio, ché mai come adesso del doman non v'è certezza. E le imprese protese in uno sforzo di strenua resistenza nel disperato tentativo di restare a galla. Così la crisi si proietta sul piano del credito, restituendo due istantanee speculari. A spiegarlo è Maurizio Liuti, direttore marketing della Centrale Rischi Finanziari, azienda globale specializzata in sistemi di informazioni creditizie e di business information il cui intento è quello di fornire alle imprese e ai consumatori informazioni e soluzioni che consentano decisioni consapevoli e accelerino l'innovazione digitale.

Dottor Liuti, quante sono al Sud e in Campania le imprese che rischiano di fallire perché non riescono a pagare i debiti contratti in questi undici mesi di pandemia?

«È una domanda alla quale è difficile dare una risposta secca, ma purtroppo possiamo affermare che plausibilmente alla fine dei provvedimenti straordinari crescerà il tasso di fallimenti, come crescerà il tasso di insolvenze. Alcune tendenze già si vedono. Quello che noi monitoriamo è in particolare il default creditizio dovuto al mancato pagamento dei finanziamenti, che in Italia, per quello che riguarda le imprese, rappresenta una quota abbastanza piccola: si viaggia tra il 2,5 e il 3,5 per cento. In alcune aree ci sono accentuazioni delle dinamiche, ma sono scostamenti di piccola entità, nell'ordine dei decimali. Gran parte degli elementi che compongono uno stato di crisi sono i pagamenti commerciali verso i creditori e i debiti verso lo Stato sotto forma di imposte e sanzioni. Nel 2020 abbiamo avuto il blocco dei fallimenti e la moratoria per la sospensione delle rate: con delle disposizioni di legge si è provato ad anestetizzare le conseguenze della pandemia, ma nei prossimi mesi avremo una dimensione più precisa sulle conseguenze della crisi. In ogni caso, sia sul lato delle imprese che su quello delle famiglie, nonostante un'inversione del trend consolidata nel corso dell'anno, la rischiosità è ancora contenuta. Per i privati consumatori, il tasso di default è all'1,9 per cento: un dato fisiologico, al netto delle moratorie che hanno spostato in avanti il rimborso delle rate. Basti pensare che durante la crisi Lehman Brothers nel punto più alto si era toccato il 3,5 per cento di insolvenza da parte delle famiglie».

A cosa è dovuto questo contenimento del danno?

«Un po' ad un atteggiamento prudente che è tipico dei consumatori italiani nel prendere impegni, un po' alla cautela delle banche. Da una parte, abbiamo ereditato dalla cultura contadina dei nostri genitori l'insegnamento che si fa un acquisto quando ci sono i soldi, non a debito. A differenza dello Stato-Italia, nel nostro Paese la quota risparmio è molto alta: i consumatori qui sono meno indebitati rispetto a quelli di altri Paesi europei. Dall'altra, quando la congiuntura è negativa va messa in conto anche la prudenza delle banche nel concedere un credito ai soggetti meno affidabili».

Quali sono i consumi che risentono maggiormente di questa prudenza negli acquisti?

«I consumi durevoli o quelli più impegnativi, come l'acquisto di automobili, risentono in maniera immediata di queste situazioni di incertezza. In quel caso si verifica una frenata brusca. Quanto alla Campania, in tutte le province la performance dei prestiti finalizzati all'acquisto di beni e servizi quali auto e moto e quelle dei prestiti personali mostrano una pesante flessione che riflette la debolezza dei consumi, specie se riferiti a questo tipo di beni. L'elettronica di consumo, invece, ha beneficiato delle restrizioni varate per contenere la diffusione della pandemia, con tante persone che hanno dovuto dotarsi di strumenti per lavorare o studiare da casa. Ma un bilancio potremo farlo quando sarà passata la nottata».

Questi effetti riguardano anche l'acquisto di immobili?

«Assolutamente sì. C'è una contrazione delle compravendite di immobili, che nei primi nove mesi del 2020 sono calate del 15 per cento. Le richieste di mutuo nel 2020 sono cresciute, ma non tanto nella componente dei nuovi mutui quanto grazie al boom di surroghe e sostituzioni. In Campania, il numero di richieste di nuovi mutui e surroghe ha fatto registrare solo uno +0,6%, con una accentuata contrazione in diverse province. La decrescita più forte riguarda Benevento e Avellino, dove si sono registrati rispettivamente un -8,7% e un -6,3%. Solo Caserta e Napoli registrano una crescita delle richieste, seppur modesta, segnando rispettivamente un +2,9% e un +2%. Quasi invariato, invece, il numero di richieste su Salerno, seppur lievemente in flessione, con un -0,9%. Questo, malgrado in questo momento i prezzi degli immobili siano estremamente vantaggiosi e il costo del denaro sia ai minimi storici».

Il mattone non è più un "bene-rifugio" al quale gli italiani si rivolgono per tentare di mettere al sicuro il loro futuro?

«Dai dati di Bankitalia emerge che nel corso del 2020 è aumentato significativamente il risparmio delle famiglie. Siamo stati tutti in casa, questo ha indotto un atteggiamento di stallo, di attesa. Abbiamo scarsissima cultura tecnico-finanziaria, compensata però da un grande senso pratico e da molto buon senso. Sono cose che aiutano. E poi in Italia ci viene ancora in aiuto la rete familiare. Un supporto che in molti casi si rivela decisivo per superare i momenti di difficoltà».

È facile arguire che l'incertezza sia un grosso deterrente per un certo tipo di acquisti.

«Le famiglie fanno fatica a prendere impegni di lunga durata, i liberi professionisti e i commercianti non hanno idee degli incassi sui quali potranno contare. E chi lavora da dipendente in un'impresa non sa se potrà arrivare un dissesto, un fallimento, una cassa integrazione, una riduzione degli organici. Il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione finora hanno in qualche misura calmierato gli effetti della pandemia sul mondo del lavoro, ma prima o poi bisognerà fare i conti con la realtà».

In questo contesto del tutto inedito, come è cambiato il ricorso al credito?

«In questi anni c'è stata un'enorme iniezione di liquidità da parte della Bce, e le banche tanta liquidità devono impiegarla: solo così possono marginare. Così, l'inflazione bassissima e i tassi molto contenuti hanno incentivato gli acquisti. E il tasso di insolvenza è continuato a calare. L'ultimo dato disponibile, che riguarda il primo semestre del 2020, ci dice che in Italia 4 persone su 10 hanno un finanziamento, un mutuo o un prestito in corso. In Campania, si registra un dato leggermente più basso: il 35 per cento dei consumatori (il 39 per cento a Napoli, il dato più alto della regione) hanno un credito attivo. La rata media è di 308 euro, valore influenzato dall'incidenza dei mutui».

Quanto è utilizzato il credito al consumo?

«La metà dei contratti di credito del quale parlavo poc'anzi è credito al consumo, e in Campania i dati sono più alti: il 50 per cento, a fronte di una media italiana del 46 per cento. La rata media rimborsata ogni mese va dai 285 euro di Caserta ai 339 di Salerno, passando per i 304 di Napoli. Salerno ha anche una quota di mutui più alta: il 18,6 per cento, mentre la media regionale si ferma al 15,7 per cento».

Le famiglie campane sono più o meno indebitate rispetto alla media nazionale?

«Il debito residuo che le famiglie italiane hanno sui finanziamenti attivi, inclusi anche i mutui, supera i 32mila euro, mentre in Campania non si arriva neanche a 27mila. Una cosa abbastanza frequente nelle regioni del Sud, in quanto il reddito medio è più basso».

Lo sblocco dei licenziamenti sarà un momento difficile. Che cosa c'è da aspettarsi?

«È stata una scelta fatta dal governo per tenere la situazione sotto controllo fino a quando non inizieranno ad arrivare i primi soldi dall'Europa per far ripartire l'economia. Per questo è fondamentale il Recovery plan e il modo in cui verrà gestito. Il 2021 sarà un anno difficile, e con lo sblocco dei licenziamenti e dei fallimenti è facile aspettarsi che possa esserci un incremento della rischiosità nel comparto del credito».

Dunque, ritiene che il tanto discusso Recovery fund possa essere uno strumento utile per fronteggiare questa crisi?

«Per l'Italia, il Recovery fund è un'opportunità straordinaria. Avere un'iniezione di oltre 200 miliardi significa avere le risorse per attivare non solo ammortizzatori sociali utili ad aiutare il Paese a superare la fase contingente, ma anche a costruire un nuovo progetto di Paese, a partire dalla digitalizzazione che in questi mesi ha avuto una spinta inevitabile. In diversi settori l'Italia ha infrastrutture molto fragili e non adeguate ai tempi».

Intanto, il mercato dei crediti per le imprese cresce, in quanto c'è l'esigenza di soddisfare i creditori, fornitori in primis. Una dinamica contraria a quella che riguarda le famiglie, che invece a causa dell'incertezza tendono a detenere moneta.

«Certo, si tratta di un atteggiamento molto frequente nelle fasi di difficoltà. Mentre le famiglie tirano il freno a mano, le imprese hanno un problema enorme di flussi di cassa e di liquidità. Ci sono tanti settori in grande sofferenza che hanno flussi di cassa quasi azzerati e per questo chiedono sostegno alle aziende di credito. Se avevano impegni assunti in precedenza, hanno congelato le rate, usufruendo della moratoria, ma prima o poi quelle rate dovranno comunque pagarle. Va poi detto che le richieste di credito sono aumentate per pagare i fornitori e gestire l'attività corrente, sicuramente non per investimenti».

Come si stanno difendendo le imprese dallo tsunami Covid?

«Dipende molto dal settore. Ce ne sono alcune in forte accelerazione, come quelle che lavorano nel digitale o nel farmaceutico. Una cosa che va detta, però, è che la pandemia non è l'unica responsabile di questa situazione. Già negli ultimi anni la crescita era modesta e c'era una tensione finanziaria non banale. In molti casi il Covid è arrivato a peggiorare una situazione che era già delicata. Per essere solide, le imprese hanno bisogno di irrobustirsi sul piano della capitalizzazione. Invece, il 37 per cento di queste già venivano da situazioni di tensione finanziaria, cui si aggiungeva un 7 per cento di imprese che non avevano molti margini di manovra. Insomma, il 45 per cento delle imprese italiane annaspava. Quelle in difficoltà sono state messe definitivamente in ginocchio dalle conseguenze del virus, devono sperare o negli aiuti di Stato o in una ripresa veloce per ripartire. Ma in genere le imprese italiane sono per natura sottocapitalizzate, ed è una cosa rischiosa».

Stando ai dati in vostro possesso, sul piano economico - e quindi sociale - la forbice tra il Nord e il Sud del Paese è destinata ad allargarsi?

«Non siamo in grado di dirlo. In generale, il Covid ha impattato duramente su regioni come la Lombardia, il Veneto e l'Emilia, il cui tessuto economico è destinato a risentirne anche nei prossimi mesi. Ma le regioni del Nord sono anche più attrezzate rispetto a quelle meridionali per far fronte a situazioni di tempesta».

In questo senso, le misure di sostegno al reddito possono mitigare le sperequazioni?

«Senza quelle, probabilmente saremmo andati incontro a tensioni sociali non indifferenti. Ma è ovvio che certi interventi finiscono con l'anestetizzare alcuni fenomeni, non facendo emergere il problema in tutta la sua gravità. Purtroppo, gli effetti del Covid sulle nostre economie si potranno valutare tra qualche tempo».