Manna: «La politica ha danneggiato la musica dal vivo»

Il fondatore del Palapartenope: «Sul Palargento le istituzioni diano priorità agli imprenditori campani. Intanto, si usi di più lo stadio per i grandi concerti»

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Ci sono cose, esperienze, sfide che, mentre tutto intorno muta, semplicemente restano. Resistono al tempo che passa e trasforma, modella e spazza via, rimescolando le carte per intavolare partite sempre nuove. Ci sono luoghi che in forza di un impegno quotidiano conquistano un posto stabile nella vita di una città. Si ritagliano un ruolo nella sua storia urbanistica, economica e sociale, dunque nel suo immaginario. E finiscono, poco alla volta, per comporre il mosaico della sua identità.

A Napoli e nel Sud Italia, per esempio, non si può parlare di musica dal vivo senza che il pensiero corra al Palapartenope. Non c'è appassionato di musica pop, rock, jazz, funk, soul (ma anche neomelodica: le porte qui sono aperte a tutti meno che allo snobismo) nato al di qua del Garigliano che non abbia varcato almeno una volta la soglia di questa arena coperta che resiste a una manciata di passi dallo scheletro del palasport demolito e non lontano dallo stadio consacrato al pallone e ai mega concerti. Su questo palco sono passati giganti del calibro di Paul McCartney, James Taylor, Jackson Browne, Elton John, Pat Metheny, Billy Cobham, Toto, Michael Bublè, Ryūichi Sakamoto, Paco De Lucia, Al Di Meola, John McLaughlin, B.B. King, Jamiroquai. E, tra gli italiani, Pino Daniele, Lucio Dalla, Antonello Venditti, i Pooh, Renato Zero, Massimo Ranieri, Laura Pausini, Fabio Concato.

Rino Manna, 84 anni vissuti a suon di rock, gli ultimi cinquanta (o giù di lì) li ha spesi qui dentro. Fu lui a fondare nel 1975 il Teatro Tenda Partenope, che prese casa inizialmente a viale Augusto per spostarsi nel 1980 in via Barbagallo, dove ha conquistato credibilità e spazio fino a raggiungere una capienza di 6.500 spettatori. Una grande sala alla quale si è aggiunta in anni recenti l'adiacente Casa della Musica Federico I, capace di ospitare 1.200 persone.

Nell'anno del vero e pieno ritorno alla musica dal vivo, dopo l'esilio collettivo imposto dalla pandemia, il Palapartenope si conferma un presidio sonoro capace di abbracciare tutto l'arco costituzionale della canzone: dai celebratissimi Maneskin, che il 28 e il 29 marzo hanno dato fuoco alle polveri con le loro chitarre elettriche, fino ai prossimi concerti dei rapper Ernia e Geolier, di Tananai e Nino D'Angelo, passando per la doppia data del comico-musico Checco Zalone. Tutto in programma ad aprile. «Da più di quarant'anni credo di aver dato alla città di Napoli, alla Campania e al Sud Italia un'importante e grande location per concerti: il Palapartenope, al quale poi si è aggiunto lo spazio più piccolo di Casa della Musica. In entrambe le strutture, nel corso degli anni, ho ospitato i più grandi musicisti e cantanti del panorama nazionale ed internazionale», rivendica Manna. A dargli ragione ci sono i fatti.

Napoli, "Città della Musica", sconta una atavica carenza di spazi adeguati ai live: come si spiega questa contraddizione?

«Grazie ai miei spazi, Napoli ha potuto ospitare concerti che diversamente non avrebbero potuto fare tappa in Campania. Tanti anni fa, quando ho iniziato, ho subito intuito che il Palapartenope doveva essere il punto di riferimento della musica a Napoli, uno spazio con una grande capienza che avrebbe permesso sia la riduzione del costo del biglietto d'ingresso sia la possibilità per le grandi produzioni di trovare ospitalità in città».

Se si escludono bagliori isolati come quello che a giugno incendierà lo stadio Maradona con il doppio concerto dei Coldplay, però, Napoli è fuori dal circuito dei grandi tour. Come si può sanare questo vulnus?

«Ormai è da decenni che si discute di questa mancanza. Ci sono idee, progetti e poi nulla accade. La nostra città, malgrado la sua infinita bellezza, ha tante mancanze. Avere lo stadio a disposizione, compatibilmente con gli impegni calcistici, potrebbe essere una buona alternativa, anche perché ciò rappresenterebbe un introito per le casse del Comune di Napoli».

Perché nessun imprenditore campano, magari dando vita ad una cordata, si è impegnato per ricostruire il Mario Argento, le cui ceneri giacciono di fronte al Palapartenope?

«Bella domanda, questa. Ma chi dice che non sia accaduto? Non vorrei che le amministrazioni, anziché agevolare gli imprenditori campani che hanno investito e investono in questa città denaro e forza-lavoro e che hanno rischiato e rischiano i propri capitali, preferissero farsi abbagliare dai falsi luccichii di aziende del Nord, che in questo modo avrebbero il dominio assoluto: artisti, ticketing e location. Le grandi produzioni cercano di monopolizzare tutto, e non trovo che questa sia una cosa positiva né per il pubblico, né per gli organizzatori locali, che sono costretti a sottostare ad una serie di angherie. Tanto per citarne alcune: il "secondary ticketing" (la rivendita di biglietti acquistati mediante i canali autorizzati, ndr) e la consuetudine di far arrivare i cachet degli artisti a cifre stellari, facendo di conseguenza lievitare il costo dei biglietti d'ingresso. Questo priva i giovani del piacere della musica del vivo».

Quali sono le difficoltà maggiori per chi vuole investire sui concerti a Napoli?

«Come tutte le attività imprenditoriali, il rischio è sempre dietro l'angolo. Negli ultimi anni la musica è cambiata molto e gli artisti, specialmente quelli giovani, sono delle meteore. Bisogna saper cavalcare l'onda e cogliere l'attimo di gloria. Ormai il grande sbigliettamento è riservato ad un pubblico giovane che segue sui social i propri beniamini. Anche la capacità di ascolto è cambiata: oggi è tutto digitale, così come la promozione dei concerti, che avviene con post sui social. I costi degli eventi sono quadruplicati, gli stessi cantanti danno meno importanza ai testi e focalizzano la loro attenzione sugli allestimenti con ledwall, luci, palchi personalizzati ed effetti scenici che impressionano il pubblico, catturandone l'attenzione, ma che dal punto di vista intimistico ed emozionale lasciano ben poco. Malgrado le difficoltà e gli enormi rischi, il mio senso del dovere mi ha portato nuovamente, e stavolta per un triennio, a gestire lo spazio all'aperto dell'Ex base - Parco San Laise, a Bagnoli, affinché anche per il periodo estivo ci fosse un luogo di ritrovo dedicato alla musica per giovani e meno giovani».

Negli anni in città hanno chiuso anche molti club nei quali si poteva ascoltare musica dal vivo di vario genere. È un segnale preoccupante?

«Tutta la cultura è in lenta agonia, la pandemia poi ha dato il colpo di grazia. Ci sono club storici che hanno chiuso, ma ci sono stati anche tanti luoghi improvvisati dove si faceva musica. A tutt'oggi lo scenario dei club o dei luoghi dove si fa musica è molto variegato, basti pensare che si organizzano concerti su lidi balneari, in discoteche, pub, chiese sconsacrate e persino centri commerciali, pertanto il concetto di club è mutato e la musica si fa ovunque. Spesso le persone, credono di poter fare tutto, ma questo è un mestiere difficile e non ci si può improvvisare. Non basta avere uno spazio o una sede legale per diventare un luogo deputato ai concerti: ci vogliono competenza e professionalità, e quelle doti sono difficili da trovare. Il panorama musicale è molto vasto e la concorrenza è spietata».

A questa città ha fatto difetto più un'industria della musica o una politica per la musica?

«Napoli è sempre stata legata alla musica. La canzone napoletana è conosciuta in tutto il mondo, è parte integrante della nostra storia, la nostra melodia ha valicato tutti i confini ed ancora oggi è apprezzata a livello globale. Pertanto, l'industria della musica è insita in noi, nel nostro sistema sociale. Ma come tutte le forme d'arte, anche la musica è pura creazione, improvvisazione, sentimento allo stato puro, e non può essere ingabbiata.  Forse, voler adottare una "politica" in questo ambito non ha per niente aiutato la musica. Anzi, a volte ha impedito il realizzarsi di grandi eventi».

L'Ufficio Musica istituito dal Comune lascia sperare un cambio di passo?

«Certamente, si spera che l'istituzione dell'Ufficio Musica da parte del Comune comporti un miglioramento per tutti noi. Mi auguro che venga data alla nostra categoria la possibilità di poterci confrontare con questo ufficio e di poter proporre dei progetti interessanti, specialmente per i giovani».

Intanto, in Regione come al Comune manca un assessore alla Cultura. Lo considera un elemento critico?

«La cultura è sempre stata una patata bollente per le amministrazioni, è difficile che un politico abbia esperienza e competenze profonde in ambito artistico-culturale. Bisogna conoscere molto bene il tessuto urbano e le tante creatività che ci vivono e ci lavorano. È importante avere una visione di ciò che ci circonda per poter sviluppare dei progetti. La cultura è parte della nostra storia, si tratta di usanze, costumi e riti che devono essere preservati e tramandati. Al tempo stesso, è necessario integrarli nella contemporaneità per donare loro nuova linfa vitale. La mia proposta sarebbe quella di affiancare all'assessore alla Cultura una commissione di esperti e di addetti ai lavori composta da gestori di teatri privati ed organizzatori che abbiano sede nella città di Napoli. In questo modo, le somme pubbliche sarebbero gestite meglio e si darebbe una possibilità equa a tutti».