Nino Daniele: «Napoli unica e anticonformista. Un patto tra le istituzioni per fermare l'emigrazione intellettuale e garantirle un futuro migliore»

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Sei anni senza respiro, eppure con un grande respiro sul mondo, dal davanzale di Palazzo San Giacomo. Sei anni avventurosi e densi ad amministrare la Cultura e il Turismo nella città italiana che più di ogni altra ha guadagnato posizioni nella graduatoria dei desideri dei viaggiatori. Sotto gli occhi di Nino Daniele, Napoli si è riempita di turisti. Una lunga, esaltante cavalcata verso la riconquista della gloria perduta. Poi, a novembre scorso, il brusco stop: il sindaco Luigi de Magistris decide che il tempo di Nino Daniele è scaduto e lo sostituisce con Eleonora de Majo, la giovane barricadera formatasi sotto le insegne del centro sociale Insurgencia che – parole del primo cittadino - «arriva dove Nino non arrivava». Un avvicendamento che molta parte del mondo culturale partenopeo – da Aldo Masullo a Maurizio de Giovanni, passando per il direttore del Mann, Paolo Giulierini - non ha capito. E non ha gradito. Ma lui, l'epurato, testimone e protagonista di un cambiamento senza precedenti, è già alle prese con nuove sfide.

Daniele, Napoli è sempre stato un brand?

«No, anzi. Fino a pochi anni fa l'immagine di Napoli era un disvalore, una cosa dalla quale tenersi rigorosamente lontani. Oggi è uno dei brand di maggior successo, ma non è stato sempre così: c'è stata un'ascesa incredibile, un ribaltamento che era impossibile prevedere. Prima finanche simboli come la pizza e la canzone napoletana avevano perso la loro capacità attrattiva, adesso l'hanno riconquistata».

Come è cambiato negli ultimi dieci anni il brand Napoli?

«Prima di tutto è cambiato sul piano culturale. Napoli è diventata una città centrale nella produzione dell'immaginario italiano ed europeo. L'esempio più emblematico è la cinematografia: qui sono ambientate tante serie tv e tanti film. E diventare il set di un film di successo può cambiare il destino di un luogo. Penso a Notting Hill, che a Londra è meta di turisti prima ancora della Tate Gallery e della National Gallery. Il secondo dato di grandissima rilevanza è che Napoli è considerata una città non conformista, che ha parlato di valori come accoglienza, integrazione e multiculturalismo. Questo ha catalizzato l'interesse di molti giovani europei, che sono incuriositi da una città complessa, vivace, contradditoria e non omologata, non uniformata con gli stili di vita, con una sua specifica originalità».

C'è stato un momento in cui questo processo si è innescato, un evento scatenante, un punto di svolta?

«Un momento specifico non direi. La cosa che ricordo è che quando siamo arrivati abbiamo trovato una città depressa e sfiduciata, dopo gli anni bui della crisi dei rifiuti e della crisi globale. E ricordo, poi, le file al Pan per la grande mostra di Andy Warhol. Quell'immagine ci fece capire che il clima stava cambiando. In altre città le file fuori i luoghi della cultura sono la norma, ma per Napoli furono un segnale importante. Poi sono venute tutta una serie di cose. Ad esempio, credo di aver fatto con coraggio qualche anno fa un'operazione significativa con la sfilata di Dolce e Gabbana nel centro antico e la cittadinanza onoraria a Sofia Loren. Cose che ci hanno portato sui giornali di tutto il mondo: dal Vietnam alla Cina, tutti ne parlavano. E, ancora, abbiamo portato in piazza Plebiscito il coro più grande del mondo, con 13mila studenti da ogni parte d'Italia e i 21 pianoforti di Piano City. Abbiamo proposto un'idea di cultura diffusa, partecipata, che abbatteva le barriere e usciva dai luoghi tradizionali».

Liberata, si potrebbe dire.

«Sì, liberata dai sacerdoti del sapere. D'altro canto, anche il dibattito sui beni comuni è partito da qui. Napoli è diventata un punto di riferimento perché è una città che faceva intravedere delle prospettive nuove, parlando con un lessico nuovo, non subalterno».

A proposito delle cittadinanze onorarie: non crede che l'amministrazione de Magistris ne abbia un po' abusato?

«No, non credo. In tantissimi chiedono la cittadinanza onoraria, e questo dovrebbe farci piacere. Napoli è una città universale, ne potrebbe dare molte altre. Non è una questione di quantità, ma di qualità: parlo di persone che in qualche modo hanno dato lustro alla città. Questo significa relazione, amicizia, promozione. Significa avere ambasciatori importanti in ogni sfera delle attività umane. Spesso chi fa il bastian contrario vuole solo mettersi in mostra».

L'evento di Dolce e Gabbana, invece, è stato un esempio di come a Napoli la dimensione globale possa incrociarsi e intrecciarsi con quella locale.

«Dolce e Gabbana hanno portato tra i vicoli i protagonisti del Trono di Spade (Kit Harington e ed Emilia Clarke, diretti da Matteo Garrone, ndr) per girare il loro spot. Poi la sfilata con le modelle a San Gregorio Armeno e Sofia Loren seduta sul trono: era una follia, e Napoli era il posto perfetto per quella follia».

Come è nata quell'idea?

«Tutto cominciò alla Bit, dove andai l'anno prima dell'Expo, nel 2014. Ci andammo con artisti e prodotti tipici, ma quando spiegavamo che volevamo portare i turisti a Napoli ci guardavano come se stessimo dicendo una cosa assurda. Poi ci dissero che Dolce e Gabbana avevano pensato a Sofia Loren per il loro nuovo spot e entrammo in contatto con il loro riferimento organizzativo, che lavorava a Milano ma era un giovane napoletano di prim'ordine che si occupava di comunicazione: Sebastiano Jodice, figlio di Mimmo Jodice (celebre fotografo, ndr), purtroppo scomparso poi molto giovane».

Che cosa vengono a cercare i turisti a Napoli?

«Le stesse cose che cercavano Dolce e Gabbana: un'esperienza che non si fa da nessuna altra parte. Quando cammini per Napoli fai un viaggio nel tempo. Non solo nel tempo storico, ma nel tempo della vita. Non a caso, uno studio del 2015 rivelò che il 70 per cento di quelli che sceglievano la nostra città avevano un titolo di studio superiore. Del resto, se le compagnie aeree low cost hanno scelto Napoli è per rispondere a una domanda sempre crescente. Capodichino sta facendo numeri importanti, ma non dimentichiamolo: se non funziona Napoli, non funziona Capodichino, non funzionano i musei, non funziona niente. Sia chiaro, ognuno ha portato un contributo straordinario di inventiva e di impegno, ma tutto comincia dalla città».

Si può dire che Napoli è stratificata non solo urbanisticamente, ma anche sul piano culturale?

«Lo è soprattutto sul piano culturale, è questo che affascina. Qui ogni pietra racconta una storia. Forse noi non ci rendiamo conto del fatto che l'immagine è un fattore produttivo. Come non ci rendiamo conto del ruolo enorme di posti come l'Istituto italiano per gli Studi filosofici. La gente viene a Napoli perché il viaggio è una scoperta».

E qui si ha la sensazione di avere sempre qualcosa da scoprire.

«Esatto. Non a caso, la gente poi vuole tornarci: in pochi giorni questa città non la tocchi neanche in superficie. La gente lo ha capito, e infatti gli indici di permanenza sono aumentati in misura significativa».

E i grandi marchi cosa trovano qui?

«La creatività. Qualche tempo fa sembrava che stessimo diventando creativi perché era venuta la Apple, mentre è esattamente il contrario. Il problema delle reti è la banalizzazione, la mancanza di contenuti e di significati».

A forza di venderlo, c'è il rischio di banalizzare e usurare anche il marchio Napoli? Se sì, come si evita questo rischio?

«Certo, ci sono non pochi rischi in questo senso. Si evitano mantenendo alta l'idea che è la cultura la vera forza motrice.  Non capisco, però, la polemica sugli stereotipi. Lo snobismo verso la pizza, la canzone classica napoletana, la maschera di Pulcinella non ha senso. Ecco perché, con il Comitato presieduto da Domenico Scafoglio, antropologo di fama, stiamo lavorando per far diventare Pulcinella patrimonio dell'Unesco. Su Pulcinella Agamben ha scritto libro bellissimo e Giambattista Tiepolo in una delle sue bellissime ville palladiane fece affrescare un'intera stanza con l'effige di Pulcinella. Certo, la si può declinare in modo banale e seriale, ma se ne fai una leva per trovare le radici ti accorgi che poche città al mondo possiedono una tale profondità».

In molti sostengono che sia in corso la cannibalizzazione del centro storico.

«Si parla tanto di turistificazione, ma il problema non sono i turisti. Se ben governato, il turismo può essere sostenibile, ma se il centro storico è il luogo universale dello spirito, allora non è adatto per la movida. Così come bisogna evitare che ci passino i motorini, facendo lo slalom tra le persone. Invece, purtroppo, i luoghi di Vico sono diventati i luoghi di una gioventù che non sa manco bene dove si trova. Quelli sono ragazzi smarriti. Per questo dico che, insieme alle guide turistiche, avremmo bisogno di guide sociali».

Qual è l'antidoto?

«La turistificazione è un problema se porta all'omologazione, ma esiste anche un turismo sostenibile, consapevole, curioso, rispettoso del patrimonio umano e storico. Quello che stravolge è la movida dilagante, la confusione. Li c'è il rischio di uno snaturamento. Bisogna procedere con coraggio a pedonalizzare spazi di enorme valore culturale e valorizzarli con scelte che orientino il visitatore, invitandolo ad un altro approccio: più caffè letterari e meno cocktail bar. Bisogna far capire che quando ci vai stai entrando in un posto unico al mondo; molti non sanno di avere a che fare con un patrimonio universale dell'umanità, in cui ogni cosa andrebbe fatta con decoro, cura, amore e cultura».

Ha ragione chi dice che abbiamo creato un prodotto turistico a buon mercato, una pietanza da street food insaporita con la spezia del folklore?

«Il fatto che qui si possa dormire e mangiare con pochi soldi non vuol dire che portiamo un turismo di basso livello. Al contrario, questo richiama un turismo giovanile e può aiutarci ad attirare di più un turismo familiare. Piuttosto, penso che c'è un patrimonio ancora semisconosciuto: i musei scientifici universitari, che sono di grandissimo valore, per non parlare della Stazione zoologica. Insomma, i margini di crescita sono esponenziali, abbiamo solo intravisto il nostro vero potenziale».

Alla città dei monumenti e dei talenti, però, mancano infrastrutture e servizi.

«Certo. Servizi e infrastrutture sono diritti fondamentali dei cittadini. Per fare uno scatto in avanti serve una grande strategia, e dunque una grande regia istituzionale in cui lavorino insieme tutti i livelli istituzionali: Regione, Comune, governo. Ne gioverebbero prima di tutto i cittadini, poi i turisti. Qui, purtroppo, è tutto complicato. Noi ci abbiamo provato, dando tanti segnali. Ma il Mezzogiorno è stato completamente cancellato sia dal centro-destra che dal centro-sinistra. Tanto con gli uni quanto con gli altri, siamo stati senza rappresentanza».

Ora abbiamo dei ministri campani.

«Sì, ma io mi riferisco alla capacità di rappresentarsi, di proporre strategie. Abbiamo il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio e alcuni ministri meridionali; il presidente della Camera è napoletano, eppure il Mezzogiorno non c'è da nessuna parte. Eppure Napoli, che prima era il buco nero dell'Italia, ora è un posto nel quale tutti vogliono venire. Ma è un'opportunità che nessuno vuole cogliere. Noi lo diciamo, ma è una vox clamans in deserto».

Che cosa ha imparato facendo l'assessore alla Cultura a Napoli?

«Le cose che ho imparato sono infinite, è stata un'esperienza incomparabile. Posso dire che ho imparato ad imparare ogni giorno».

È un'esperienza finita troppo presto?

«Forse troppo tardi (sorride, ndr)».

Le manca non essere più assessore?

«No. Ogni cosa, nella vita, deve avere un inizio e una fine».

Che cosa farà da grande Nino Daniele?

«Ho già nuovi desideri, nuovi sogni. Soprattutto, ho una passione pedagogica: vorrei continuare a dialogare con i giovani ogni volta che è possibile. Per questo, con Pino Ferraro stiamo promuovendo la "Scuola dei Legami Pubblica e Politica", che raccoglie associazioni, giovani, liberi cittadini».

E Napoli? Come se la immagina tra dieci anni?

«Dipende. La partita si gioca sui cervelli, non dobbiamo continuare a perdere intelligenze. La nostra vera tragedia, oggi, è l'emigrazione intellettuale. Proprio nel momento della riscossa, sì: è una congiuntura singolare, l'ennesima contraddizione. Però sono molto ottimista: questa città ha un potenziale unico, ancora in gran parte inespresso. E per farlo emergere, in fondo, non ci vuole molto».