Niola: Basta con la cultura della delega, lo Stato non può fare tutto. Spazio a privati e giovani e porte aperte al turismo per combattere il degrado.

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Sono passati 27 anni da quando il film "Io speriamo che me la cavo", tratto dall'omonimo libro di Marcello D'Orta, ha sdoganato il vocabolo che in quel ricco paniere di immagini e suggestioni che è il dialetto napoletano meglio esprime l'idea di degrado. Eppure, alle soglie del 2020, Napoli la trovi ancora così: in molti angoli «sgarrupata», a volte decadente. In ogni caso, troppo spesso intenta a rincorrere l'emergenza.  Marino Niola, antropologo, saggista ed editorialista, ha idee ben definite a riguardo e individua due direttrici per la svolta: da una parte, l'esigenza di abbracciare le categorie della nuova economia, superando la delega statale per fare spazio ai privati; dall'altra, quella di spalancare le porte al turismo. Senza, per questo, lasciarsene travolgere.

Professor Niola, se passeggia per il centro storico, come lo vede? "Sgarrupato" o in buona salute?

«Vedo un centro storico non in perfetta salute, ma neanche così degradato come si dice. Se ci ricordiamo che cosa era negli anni '80 e a metà degli anni '90, possiamo affermare che oggi sta messo molto meglio. Chi non riconosce questo, in quegli anni era da un'altra parte».

Il dissesto delle carreggiate, però, è un chiaro indice del degrado. Non sarebbe ora di sistemare una volta per tutte strade anche principali ridotte a mulattiere?

«Le strade malridotte sono un segno della difficoltà di gestione, ma anche della povertà. Per rifarle, ci vogliono soldi. E non mi risulta che ce ne siano molti».

Il degrado, intanto, fa anche delle vittime: sei anni fa una donna morì schiacciata da un albero, mentre nel 2014 a un ragazzo di 14 anni fu fatale un fregio della Galleria Umberto I e un mese e mezzo fa un commerciante è stato ucciso da un pezzo di cornicione in via Duomo.

«Devo dire che siamo in buona compagnia, episodi del genere succedono anche in altre città. Napoli è una città complessa, con un patrimonio immenso da manutenere ed ha uno dei più grandi centri storici d'Europa. In questo momento, ha almeno tre problemi: accanto alla conservazione e alla valorizzazione, c'è l'impatto turistico, una variabile nuova che crea problemi nuovi ai quali la città non era abituata. In pochi anni la città ha bruciato le tappe, diventando di un turismo internazionale. Questo genera inevitabilmente delle ripercussioni. Napoli è stata brava a far fronte all'invasione turistica, non si è ridotta ad un fondale come è accaduto a Venezia e, sia pure in modo diverso, a Firenze. La città continua a fare la sua vita. Vero, in certe zone l'impatto del turismo è molto forte, ma è anche vero che questo flusso sta producendo vantaggi non solo economici. Le ricadute positive ci sono e ci saranno anche in termini di recupero architettonico. Ci sono edifici che hanno smarrito la loro funzione abitativa, diventando degli airbnb? D'accordo, ma intanto sono stati recuperati, per cui direi che non c'è da rimpiangere la funzione originaria. E sono sicuro che il reddito del turismo aiuterà i privati a fare le manutenzioni necessarie. Siamo all'inizio di un processo di turisticizzazione: secondo me, è una grandissima chance».

Il fatto che Napoli sia stata scoperta dal turismo di massa, insomma, non la condanna, ma la salva?

«Certo. Non capisco le geremiadi di quelli che sono indignati da sempre, contro ogni cosa, ma non hanno mai prodotto un solo posto di lavoro. I movimenti contro la turisticizzazione mi lasciano perplesso. Come si fa a dire "vogliamo il turismo, ma non la turisticizzazione"? Soprattutto il turismo low cost è uno tsunami: a Venezia non si riesce a camminare, si viene travolti dalla folla. Anche a Napoli arriva un turismo a basso costo, ma ce n'è anche uno di profilo alto, tanto è vero che i lussuosi alberghi del Lungomare sono sempre pieni. Il turismo fa nascere posti di lavoro. Precari, se vogliamo, ma adesso il lavoro va in quella direzione. Però se c'è si può pensare a migliorare le condizioni, nel caso contrario non c'è non c'è niente da fare».

Dunque, a suo avviso il turismo non è un ulteriore agente di consunzione della materia urbana? Non si corre il rischio di una trasformazione in senso commerciale del centro storico, col rischio di sacrificare la storia in nome dell'economia, di immolare il passato sull'altare del "qui ed ora"?

«Il turismo è una chance. Bisogna governarlo per mettere a frutto questa chance, senza farlo diventare una catastrofe. Spesso guardiamo le pagliuzze nei nostri occhi, ma dimentichiamo le travi che hanno gli altri. Le esigenze si possono unire: si può salvare la storia in modo non meramente conservativo, così che diventi una risorsa economica. Niente ha un valore in sé. Credo che per questo si debba costruire un think tank misto, fatto di forze sociali, economiche e culturali, altrimenti staremo sempre a lamentarci che le istituzioni non fanno abbastanza».

Le grandi città sono in via di trasformazione. Quale può essere il ruolo degli edifici-simbolo, oggi non più funzionali all'utilizzo per cui sono stati costruiti?

«O si trovano forme di rifunzionalizzazione o si trasformano in grandi attrattori turistici. La manutenzione di edifici di grandi dimensioni costa moltissimo: piuttosto che condannarli al degrado, se non si può fare di meglio, li si può anche trasformare in alberghi. Non insisterei nella difesa cieca ad oltranza di un patrimonio che lo Stato non può più curare. Negli Stati Uniti i palazzi di pregio si mantengono grazie al contributo degli sponsor».

L'editore Diego Guida, in una recente intervista rilasciata a Nagorà, si è detto rammaricato per il fatto che la libreria dei suoi zii, con la celebre Saletta rossa, non sia diventata una biblioteca comunale. È stata un'occasione persa?

«È vero, sarebbe stato bello, ma mi domando: perché nessun imprenditore si è fatto avanti con una proposta per una nuova destinazione economica di quello spazio coerente con la sua storia, senza per questo farne un monumento da conservare? Io, più che sul Comune, che ha mille cose da fare, punto il dito contro i privati. Abbiamo fior di imprenditori, che però hanno più a che fare con il mondo che con la città. Aspettarsi tutto dalle istituzioni è una forma di affidamento e di deresponsabilizzazione. Ripeto, gli indignati sono come i disoccupati organizzati: hanno fatto della protesta la loro ragion d'essere. Fanno i censori e i giudici, spiegandoci come dovrebbe essere la città, senza peraltro che qualcuno li abbia investiti di questo ruolo».

Le nostre città sono piene di ex complessi industriali, ex ospedali, ex alloggi popolari, ex mercati, ex complessi sportivi, ex scuole e ex conventi. Qual è il destino dei grandi immobili dismessi?

«Ci sono molti edifici che aspettano di essere utilizzati. Per farlo, ci vuole una sinergia tra pubblico e privato, magari con forme di fundraising. Viviamo nell'epoca della sharing economy: possibile che qui non si riesca a mettere insieme le forze per cambiare le cose? Non possiamo restare ancorati all'idea che lo Stato debba provvedere a tutto, facendo al tempo stesso l'imprenditore e il tutore. È necessario fare un salto in avanti».

"Degrado", però, sono anche i parcheggiatori abusivi, un trasporto pubblico da Paese sottosviluppato, le "stese" a Forcella e alla Sanità, gli ospedali in mano ai clan, un sottobosco che ancora vive di espedienti e abusi assortiti, Bagnoli e Napoli Est che restano prigioniere del "nonsipotismo". Come vede Napoli tra dieci anni? Riuscirà la città a sopravvivere ai propri cittadini e ai propri amministratori?

«Sono piuttosto fiducioso. Se l'economia inizia a girare, il meccanismo si muove e certi processi storici si innescano. Per questo, mi domando: prima di indignarsi per il turismo, perché non ci si indigna per il fatto che intere zone della città sono occupate manu militari dai parcheggiatori? Molti vedono i turisti come barbari invasori ma non vediamo che i barbari ce li abbiamo in casa. E barbaro è anche chi consente tutto questo. I parcheggiatori erano scomparsi, adesso sono tornati. Il fatto è che questa città soffre di un eccesso di autogoverno: colpa delle istituzioni che non fanno abbastanza per assicurare il rispetto della legalità e delle condizioni normali di civiltà, ma colpa anche di chi si adegua al peggio. Nessuno ha diritto di scagliare la prima pietra».

Eppure c'è chi dice che Napoli piace così: geneticamente imperfetta e allegramente anarchica. Di quell'anarchia irredimibile che fa sorridere il turista e fa piangere l'abitante. Siamo destinati a restare intrappolati in questo cliché?

«Ci sono delle soglie oltre le quali il cliché diventa un'altra cosa. Va anche bene un certo folklore, purché non diventi anomia e degrado. Nel genoma della città questo c'è. Ho scritto libri sulla Napoli del '600 e mi sembrava, leggendo le cronache dell'epoca di leggere i giornali di oggi. Se allora succedevano certe cose, però, non è detto che debbano succedere oggi. Ma i tratti di lunga durata, i tratti identitari, si possono correggere senza per questo diventare milanesi o svedesi. Restiamo mediterranei, ma non facciamo in modo che l'identità diventi un alibi per non adagiarsi».

Per concludere: su cosa dovremmo migliorare e su cosa invece dovremmo insistere?

«Bisogna attivare le energie sociali, soprattutto quelle dei giovani, che in città esistono. E non dovremmo aspettarci tutto dalle istituzioni. Se le proposte sono buone, le istituzioni seguono a ruota. E i giovani hanno spesso buone idee. Ecco: non è tanto di un'architettura fisica che abbiamo bisogno, ma di un'architettura sociale. Ci penalizza la mancanza di mobilità sociale. Persone di grande valore qui trovano la porta chiusa da rendite di posizione. Certe incrostazioni sono come dei tappi che impediscono il libero fluire dei talenti. Napoli è la città più giovane d'Europa, ha bisogno di sfruttare questa grande energia. E invece perde i suoi giovani: prima li forma, investendo danaro su di loro, e poi se li fa soffiare. Questo è molto grave».