Prezioso: «Napoli Est, il futuro sia di tutti»

Il promotore di Est(ra)moenia: «Facciamo dialogare la storia con la modernità: il territorio è attrattivo se si guarda a 360 gradi. Lo sviluppo è sano se non si lasciano indietro i più fragili»

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La sua scommessa è piombata sul tavolo improvvisa, a scuotere il torpore di una città stretta tra i punti cardinali della propria inefficienza. A Est come a Ovest, infatti, quell'alba attesa da trent'anni Napoli non l'ha ancora vista. Ambrogio Prezioso, imprenditore e costruttore, già presidente dell'Unione Industriali di Napoli e dell'Acen, la sfida all'immobilismo di questa terra eternamente promessa (e quasi mai mantenuta) l'ha lanciata un anno fa, facendo non poco rumore. Dentro Est(ra)Moenia, lungo tre direttrici portanti - welfare, cultura e rigenerazione urbana - ha raccolto imprenditori, professionisti, operatori del terzo settore e dell'arte per elaborare e realizzare progetti destinati allo sviluppo della fetta di città che si estende da Porta Capuana alla zona orientale, con una particolare attenzione ai punti di accesso alla città: stazione, porto e aeroporto.

Su queste prospettive lunedì 21 novembre si sono confrontati nell'Aula Magna della Apple Developer Academy della Federico II il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, il rettore della Federico II, Matteo Lorito, il presidente di Ance Napoli, Angelo Lancellotti e affermati studiosi. «Si è parlato - ha spiegato Prezioso - dei numerosi progetti in attesa di realizzazione come l'hub trasportistico nella porta Est a piazza Garibaldi e di proposte atte a definire il passaggio e i collegamenti tra le stazioni del Centro Direzionale e l'Emiciclo di Poggioreale: un parco lineare, una sorta di low line, che ridia dignità e respiro ad aree attualmente abbandonate, come quella di Caramanico; o altri collegamenti per collegare aree precluse al mare, come la Ex Corradini, dove il Comune di Napoli in accordo con la Regione Campania ha già in programma di restituire il lungomare ai cittadini».

Il recente confronto pubblico tra istituzioni, imprenditori e accademici ha aperto una riflessione sull'area Est di Napoli in una visione strategica metropolitana. A un anno dalla nascita, il bilancio della vostra iniziativa qual è?

«L'idea è quella di produrre una strategia che possa essere indirizzata verso forme di infrastrutturazione che servono alla città, coinvolgendo il territorio. Come ha detto nel corso del convegno Ennio Cascetta, i progetti sono come le medicine: hanno una scadenza. Se una cosa pensata vent'anni fa, come NaplEst, non è stata ancora attuata, significa che non funzionava. Est(ra)moenia si pone in una logica di approfondimento e di ascolto approfondito del territorio: tutto ciò che sarà prodotto dal Pnrr in termini di infrastrutture, che era già allo studio degli assessorati regionali e comunali e del Cis Vesuvio e coinvolgeva 2 Municipalità dell'area orientale, servirà a comporre un gettito fiscale che ripagherà quello che Draghi ha definito il "debito buono". Serve, però, un'azione che coinvolga tutti i players nella condivisione delle idee. Non solo le imprese innovative, le manifatture digitali, la robotica dell'agricoltura in cui siamo secondi in Europa, ma anche l'ascolto delle problematiche che vengono dal sociale. Perché la sostenibilità economica e quella ambientale non bastano se non le incroci con i problemi sociali. Su questi temi il 21 novembre abbiamo voluto mettere a confronto e far dialogare assessori regionali e comunali, esperti della materia, studiosi della mobilità che hanno dialogato anche sulle interconnessioni con i cosiddetti paesi di prima corona, in un'ottica metropolitana che è cosa buona e giusta. Tutti quelli che provano a rilanciare il territorio devono sapere qual è lo stato dell'arte e quali sono le decisioni che stanno per essere assunte».

Come immagina il coinvolgimento del terzo settore?

«La dispersione scolastica, la povertà, le fragilità sociali, la disoccupazione, la presenza criminale sono questioni centrali. Non può esserci uno sviluppo sano se non ci si occupa dei contesti familiari degradati. Il terzo settore può incidere in modo positivo anche con l'arte e con la cultura, declinate nelle loro varie forme. Noi vogliamo dare una mano alle associazioni che fanno corsi di musica o di recitazione, ai preti impegnati nel sociale. Facendo incontrare mondi distinti, e talvolta distanti, si può accendere la scintilla del cambiamento, avviando una rigenerazione fisica fatta di infrastrutture materiali e immateriali. Forse queste ultime in determinati territori sono anche più importanti, consentono di far nascere qualcosa di nuovo. Se questo non accade, vuol dire che si tratta di iniziative calate dall'alto, frutto di ragionamenti di maniera. Per cambiare le cose, bisogna mettere mani nella creta».

Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale. NaplEst non ha prodotto i risultati sperati?

«No, guardi, io in Naplest ho creduto molto, ma quell'esperienza e Est(ra)meonia sono due cose molto diverse».

Ecco: quali sono le differenze?

«NaplEst cercava di interpretare il piano regolatore e i tanti Pua (Piani urbanistici attuativi, ndr) approvati ma non attuati. Probabilmente la spiegazione sta nell'affermazione di Ennio Cascetta cui facevo riferimento prima: se scadono, vuol dire che non funzionano. Uno dei grandi progetti era l'interramento del "Traccia" (il binario di raccordo tra l'area portuale con la stazione ferroviaria, che è fuori servizio, ndr). Se i container che vanno all'interporto sono il 5 per cento del totale, è evidentemente che realizzare un'infrastruttura del genere non serve ed ha costi molto alti. Inoltre, ci sono molte aree Sin (Siti di interesse nazionale, aree contaminate molto estese classificate come pericolose e che necessitano di interventi di bonifica, ndr) con residui di lavorazioni del petrolio. Sono elementi che hanno fatto sì che questi progetti non si sviluppassero. Quella di NaplEst però è stata una stagione felice, in quanto ha acceso una speranza. Ma Est(ra)moenia è un'altra cosa. Si concentra su un territorio molto più piccolo, cercando di progettare il cambiamento intorno ad una piazza e utilizzando le parole chiave di Renzo Piano e Carlos Moreno sulle periferie, che sono piene di energie. Si parla di rammendo, ed è esattamente quello che abbiamo in mente. Se partendo da piazza Garibaldi io prendo la parte più antica e millenaria della città, con le sue chiese come San Giovanni a Carbonara, con il Madre e Castel Capuano, con esperienze come Made in Cloister e Dedalus, con i grandi alberghi e le iniziative artistiche come Interaction del bravissimo Davide De Blasio, e la metto in collegamento con la parte più moderna, dalla Developer Academy dove si formano gli studenti che aiuteranno a formare il Pil di Apple a altre accademie come Technè, unisco due diversità e faccio nascere qualcosa che può essere molto più intelligente, curando l'aspetto sociale. Se certi ragazzi li prendo in carico già alle scuole medie, a 11-12 anni, quando sono in dispersione e riesco a catturare la loro attenzione con la bellezza e l'arte, se li porto in luoghi incredibili a loro vicini come Pietrarsa e la piazza dell'ex depuratore, se recupero la Corradini, ho cambiato veramente qualcosa. E intanto le nostre università acquisiscono ulteriore rating. Questo vogliamo fare con Est(ra)moenia. NaplEst è stata una cosa molto bella, che io non rinnego. Un'esperienza positiva che ha fatto cose interessanti, ma che per me è finita nel 2016».

Perché a suo avviso si è esaurita?

«Per rispondere, bisogna comprendere quali sono i motivi per cui i Pua sono rimasti inattuati. I motivi sono quelli che ho citato prima il "Traccia" e l'eccesso di aree Sin, oltre al modo in cui si è affrontato il tema dei depositi costieri. Il mio Brin 69, però, dimostra che perfino un posto particolarmente brutto può avvenire un miracolo, se ci metti passione. Oltre alla Federico II, c'è un complesso dove raccolgo il terziario e le produzioni, con cinquanta ragazze che lavorano sulla ricerca. Poi ci sono realtà come Temi Spa di Tavassi, Paolo Graziano inizierà qui la rigenerazione. Tutti hanno scelto, invece di trasferirsi a Nola nel solito padiglione industriale, un edificio del 1930 col fascino della ciminiera antica. A chi dice che sono solo chiacchiere, rispondo che siamo ben oltre le chiacchiere».

L'incontro del 21 novembre le infonde nuove speranze?

«Le discussioni fatte lunedì scorso sono molto importanti. Ci hanno fatto vedere continuità e spirito di collaborazione tra assessorati regionali e comunali, oltre al rapporto con gli altri Comuni. Seguirà un altro convegno sui temi delle architetture, anche quello con presenze di rilievo, ma intanto è confortante constatare che siamo tutti allineati».

Est(ra)moenia ha rotto un equilibrio che si era assestato sull'inerzia?

«Non direi. Si tratta, piuttosto, di una sperimentazione realizzata su un territorio complesso non molto esteso dove vogliamo fondere le esperienze e le forze per fare un viaggio insieme. Vogliamo far incontrare mondi che tra loro non si parlano. Ad oggi, abbiamo oltre 50 soci. E sa come ho convinto gli esercizi commerciali, i professionisti, il Court food di Ferrovie e gli alberghi di piazza Garibaldi, dove Metropolitana di Napoli ha abbandonato la manutenzione? Ho detto loro che social e manifesti non servono. È molto meglio investire nella co-progettazione della piazza per mantenerla pulita, garantire l'ombreggiamento e realizzare attività teatrali nella cavea che può ospitare 600 persone. E intanto far parlare le comunità dei maghrebini e dei nigeriani. Cose che ti restituiscono un saldo positivo sulla decrescita. In questo modo si creano posti di lavoro, perché il territorio diventa attrattivo se tu lo guardi a 360 gradi. Oggi nella piazza trovi gli homeless buttati a terra, e mentre da altre parti fanno miracoli studiando bene certi problemi, noi spesso ci giriamo dall'altra parte».

A legare i destini dell'Est e dell'Ovest di Napoli ci sono le eterne promesse puntualmente disattese e la linea di costa. Come si spiega questo destino che accomuna i due versanti che il mare di Napoli non bagna?

«Per quanto riguarda l'area Ovest, io definisco il golfo di Pozzuoli il "golfo intelligente", poiché lì ci sono il Tigem e altre realtà bellissime che fanno ricerca. Gli incidenti di percorso hanno bloccato la sperimentazione di Città della Scienza, ma quella è una sfida che bisogna rilanciare. È chiaro che lì la vocazione è principalmente turistico-ricettiva. Dal Rione Terra al Tempio di Augusto, dall'Anfiteatro Flavio a Cuma, fino al Lago Lucrino, passando per la Piscina Mirabilis e le Ville di Adriano, bisogna mettere insieme tutto e portarci il ferro e le piste ciclabili. E poi servono aziende che sviluppino la risorsa mare, utilizzando l'energia presa dalle solfatare. La manifattura non deve mai mancare, il turismo da solo non è sufficiente. Anche lì sono stati fatti errori legati ad un'area Sin con un inquinamento del mare che si è protratto per decine e decine di anni. A cosa sono dovute la lentezza e la cattiva gestione? Alla litigiosità e lo spoil system, mali tipici del Sud. A Milano la continuità amministrativa è stata garantita anche quando a governare c'erano esponenti di colore diverso. In un'epoca di populismo esasperato si è parlato di non consumo di suolo, ma le nuove costruzioni a Bagnoli ammontano a 1,3 milioni di metri cubi, ai quali ne vanno sottratti 300mila per il cosiddetto mostro di acciaio dell'ex Italsider. Parliamo di dieci ettari di costruito su 200 e oltre, appena il 5 per cento. Eppure di questo si è parlato tanto

Qual è il più grande difetto delle nostre istituzioni?

«C'è troppa attenzione alla maglia, manca una politica alta. Ma sia chiaro, anche la classe dirigente ha delle colpe, c'è un problema di sistema. Se hai un ambiente contaminato in tutte le sue parti, è difficile far nascere un fiore. Le maison della moda devono andare a Milano, come il calabrese Versace e il nostro Kiton. In certi casi, il territorio diventa un brand. D'altra parte, però, penso al gruppo Moschini di Laminazione Sottile, per me il più illuminato: quando ha idee, competenze, tecnologie, il territorio diventa quasi un dettaglio».

E quello degli imprenditori?

«Una bassa capacità a stare insieme da piccoli per diventare tutti più grandi. Noi meridionali siamo un poco individualisti, anarchici, autoreferenziali. Così, finiamo per essere provinciali».