Soffro, ergo vinco. Ferrara: «Napoli, città "allenata" al sacrificio»

«Un destino difficile ci ha resi più forti. Ma in campo noi ci divertivamo, oggi i ragazzi hanno perso la spensieratezza. I vivai? Troppi talenti fuggono al Nord»

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Napoli capitale dello sport? Passando in rassegna palazzetti sventrati, piscine prosciugate, palestre inagibili, impianti vandalizzati e stadi chiusi da decenni, di capitale dovrebbe esserci solo la perplessità. In più, soprattutto nelle discipline che fanno intravedere il sogno di una vita dorata, calcio in primis, la diaspora di giovanissimi talenti verso il Nord opulento e lungimirante non accenna a declinare.

Eppure, dopo l'Universiade del 2019 e lo scudetto del 2023 (successi ai quali si è aggiunta ora la Coppa Italia del basket, con la Gevi costretta a giocare in quello che resta un prefabbricato eternamente provvisorio), Napoli ha vinto ancora, guadagnando per il 2026 un nuovo proscenio internazionale. Anche da queste parti, però, lo sport ha cambiato sapore. Certo, dal Subbuteo alla PlayStation, dalla radiolina alle cento telecamere che scrutano ogni dettaglio, da Novantesimo minuto alla diretta in streaming tanto si è guadagnato, ma nella transizione dallo stato analogico a quello digitale molto altro si è perduto. Prima di tutto, quel ludus che almeno nell'età dell'incoscienza dovrebbe stemperare l'asprezza agonistica con la voglia di divertirsi. Di giocare, appunto.

Ciro Ferrara, figlio di Napoli e eroe della squadra dei due scudetti e della Coppa Uefa (suo nel 1989 il gol del 2-1 nella finale di ritorno con lo Stoccarda: anche quella 'na sera 'e maggio), lo dice con rammarico: «Negli anni in cui ho iniziato, l'approccio era assolutamente amatoriale, abbiamo vissuto gli anni dell'adolescenza con spensieratezza. Oggi, invece, i ragazzi e soprattutto i loro genitori vedono nello sport professionistico una via di salvezza. Si va verso una iper professionalizzazione, è inevitabile che l'aspetto ludico venga un po' a mancare». Anche se ormai da molti anni la sua vita ha messo radici a Torino, dove tra l'altro ha aperto la pizzeria "Da Ciro" (il difensore, che per molti anni è stato un pilastro della Nazionale, fu ceduto alla Juve nel 1994), il cordone ombelicale con la patria napoletana non si è mai spezzato. Con il disincanto di chi osserva da lontano i tormenti della propria gente, che la «resilienza» ha preso a praticarla ben prima che diventasse una moda, Ferrara, oggi allenatore e commentatore tv, legge le affermazioni sportive di una città costretta a sostenere il peso di un destino ad handicap, dove le vittorie hanno sempre un retrogusto agrodolce. «Lo sport è anche sacrificio, e noi siamo abituati ad adattarci alle situazioni difficili», spiega parlando dei suoi concittadini, "allenati" loro malgrado a tribolare. Campioni, sì, ma di resistenza. E, a volte, anche di sopravvivenza.

Ferrara, qual è il rapporto tra i napoletani e lo sport? Ritiene che nella sua città di origine sia radicata una vera cultura sportiva, come hanno sostenuto i commissari che hanno scelto Napoli come capitale europea dello sport 2026?

«Probabilmente questa scelta nasce anche dall'amore sconfinato dei miei concittadini nei confronti della propria squadra di calcio. Da questo punto di vista c'è una forte identificazione, il che facilita l'avvicinarsi alla pratica dello sport più diffuso. Ma Napoli era ed è ancora una delle città che ha primeggiato in tanti altri sport. Mi viene da pensare sicuramente alla pallanuoto, se non altro per la fortuna che abbiamo di essere nati in una città di mare, e che quindi è appassionata di questo sport. E oggi penso anche al basket, che come quando io giocavo nel Napoli andava bene. C'è un amore straordinario nei confronti dello sport in generale. Molto è dovuto al traino del calcio, ma possiamo ritenerci orgogliosi di avere avuto grandi campioni anche in altre discipline, dal pugilato, al judo, alla scherma. Lo sport è anche sacrificio, capacità di adattarsi alle situazioni difficili, le stesse che si vivono quotidianamente nella nostra città. In questo, noi napoletani siamo temprati. Il fatto di dover superare i nostri limiti, di doverci mettere sempre in gioco, ci porta in qualche caso ad eccellere».

Come è cambiato il rapporto con lo sport rispetto agli anni in cui lei ha calcato i campi di calcio?

«Sarebbe inutile girarci dall'altra parte, questa è un'epoca completamente diversa rispetto a quella che ho vissuto da ragazzino, quando c'era un approccio più amatoriale. Oggi le dinamiche sono totalmente diverse, e la tecnologia e la cultura hanno influenzato molto questo cambiamento».

Si stava meglio quando si stava peggio o questo nuovo modo e questo nuovo mondo le piacciono?

«Che ci piaccia o no, conta poco. Gli atleti sono diventati dei grandissimi professionisti, ciascuno di loro è una vera e propria azienda, e questo è un dato di fatto. Non possiamo far finta di nulla né pensare di tornare indietro. Poi, certo, possiamo essere legati al nostro periodo, a quell'aspetto romantico, ma c'è stato un continuo sviluppo anche da un punto di vista delle tecnologie. Oggi hai informazioni e statistiche su tutto: sullo stato di forma, su quanto hai corso, su quanti passaggi hai sbagliato. Si va verso una iper professionalizzazione dello sport, è inevitabile che l'aspetto ludico venga un po' a mancare. Possiamo dircelo, non è bello, soprattutto se accade tra i giovanissimi. Negli anni in cui ho iniziato c'era un approccio assolutamente amatoriale: abbiamo vissuto gli anni dell'adolescenza con spensieratezza, ci siamo divertiti. Oggi, invece, i ragazzi e soprattutto i genitori vedono nello sport professionistico una via di salvezza, una via di uscita da una condizione sociale svantaggiata. Così, spesso si fanno ricadere sui figli delle aspettative pesanti, difficili da gestire. Poi, è vero, per i ragazzi ci sono tante altre distrazioni che ai tempi miei non esistevano. Una cosa è certa: al di là di tutto, fare dello sport, a qualsiasi livello, fa bene».

In alcune realtà in cui il disagio sociale è più profondo, l'attività fisica assolve ad un ruolo sociale che in alcuni contesti può essere decisivo.

«Senza dubbio. Con Fabio e Paolo Cannavaro portiamo avanti da tantissimo tempo una fondazione (la Fondazione Ferrara-Cannavaro, ndr) con la quale realizziamo tante iniziative non solo di natura sportiva. Dare la possibilità di riqualificare spazi che permettono ai ragazzi di non stare in mezzo alla strada è una cosa di fondamentale importanza, perché l'attività fisica, in modo particolare negli sport di squadra, acquisisce un ruolo di integrazione, di condivisione. Non c'è cosa più bella che poter condividere con i tuoi coetanei certe esperienze. Ed è chiaro che se di pomeriggio togli dalla strada tanti ragazzi, dando loro la possibilità di vivere lo sport, con tutte le dinamiche positive e sane che si creano tra i ragazzi, è qualcosa di fantastico. Noi siamo orgogliosi di aver portato avanti diversi progetti che vanno in questa direzione. Il più grande per numeri riguarda un centro sportivo riqualificato a Scampia, che era stato vandalizzato sin dai tempi del terremoto e dove oggi giocano 500 ragazzi. Quando andiamo a trovarli, vedere tanti giovanissimi su quei campi e tante famiglie che ci ringraziano ci riempie il cuore».

Nei quartieri più sofferenti nascono spesso anche i talenti più puri e promettenti. Eppure alcune società professionistiche di calcio non investono abbastanza sui vivai.

«Questo è verissimo, anche se il mio caso è l'eccezione alla regola (Ferrara è nato nel quartiere Posillipo, ndr). Molti di questi ragazzi, anche in età molto giovane, scelgono strade diverse, andando in società del Nord che vanno a pescare nei quartieri più disagiati. Credo che questo debba far riflettere chi ha il compito di curare i vivai e, più in generale, i dirigenti delle società. È un fatto che tanti ragazzi campani hanno avuto fortuna lontano dalla loro terra, facendo anche brillantissime carriere partendo da Napoli. Molti di loro li abbiamo riuniti qualche anno fa, quando in periodo di Covid, con la Fondazione Ferrara-Cannavaro, abbiamo messo all'asta le maglie dei calciatori nati in Campania per una raccolta di fondi da destinare alle spese per le famiglie in difficoltà. C'erano Immobile, Floro Flores, Borriello, Quagliarella, Criscito, Di Natale ed altri ragazzi che non hanno avuto la fortuna di giocare nel Napoli ma che hanno fatto la storia del calcio italiano. È stato bello ritrovarsi e condividere con dei compaesani questo momento di solidarietà».

Si intravede un'inversione di tendenza?

«Non mi sembra che ci sia stato un cambiamento. La sensazione è che tuttora molti ragazzi del Sud scelgano strade che li portano lontano dal luogo di origine».

A proposito di primati, la Campania ne detiene da tempo uno poco invidiabile in fatto di obesità infantile. A penalizzare il Mezzogiorno c'è un'atavica carenza di spazi e impianti per lo sport. Le istituzioni potrebbero fare di più?

«Su questo non ho dubbi. Ci sono passato con il Collana, e devo dire che mi è passata pure la voglia (lo stadio del Vomero è tornato nella disponibilità della Regione Campania al termine di una lunga querelle con la Giano Srl di Ferrara e Cannavaro, ndr). Dobbiamo riqualificare impianti e campi per dare ai ragazzi luoghi dove ritrovarsi in modo sano. E dobbiamo incentivarli a fare attività fisica: ti aiuta a liberarti dallo stress accumulato e ti fa stare meglio dal punto di vista dell'umore. Come ho detto, lo sport è una fonte di passione, di condivisione, di inclusione di fondamentale importanza. Ha una forza sociale potentissima, ma purtroppo non sempre è compresa da chi governa».