Napoli: oltre le contraddizioni c’è un’armonia da ritrovare

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Se i luoghi, come suggerisce Hillmann, hanno un’anima, quella di Napoli è duplice sin dalle origini, quando i dioscuri Castore e Polluce, eternità e caducità, dominavano l’agorà dal tempio sui cui è sorta poi la chiesa di San Paolo Maggiore.

Le città millenarie non possono che essere fenomeni complessi e contraddittori, aggregazioni di parti urbane oggetto dei capovolgimenti della storia. Fenomeni che, da un passato distante, si possono prolungare fino alla contemporaneità nella veste adeguata ai tempi. Proveremo ad indicare alcune contraddizioni o, meglio, complessità costanti che Napoli ci sottopone: il rapporto conflittuale tra la scala urbana e la dimensione territoriale; l’ambivalenza di città collinare e marina; l’inerzia e il “dinamismo spontaneo” di parti del centro urbano.

La capitale ha sempre avuto con il territorio del Regno un rapporto volubile e oscillante.

Alla fine del ‘400, la congiura dei Baroni insofferenti verso la corte aragonese, verrà respinta ridimensionando l’enorme potere dei feudatari che, non a caso, erano definiti piccoli re della Campania, Reguli Campaniae. L’aristocrazia cederà, successivamente, all’irresistibile fascinazione della corte napoletana. Il Centro Antico sarà il luogo privilegiato dalla nobiltà per insediare le proprie dimore lungo le tracce affioranti delle insulae romane mentre il contestuale inurbamento del popolo, sedotto dalle migliori condizioni di vita della capitale, contribuirà a saturare i residui spazi liberi e ad invertire la direzione della crescita della città in altezza. Una crescita troppo a lungo compressa nei limiti della murazione che ha determinato valori di densità intollerabili per la resistenza della struttura urbana. La tormentata relazione con l’entroterra, si riverbera, oggi, nell’irrisolto rapporto con l’area metropolitana che, proprio per essere la questione urbanistica di maggior rilievo nazionale, è costantemente esclusa dal dibattito pubblico. L’urgenza di archiviare frettolosamente la perimetrazione senza violare santuari, confini amministrativi, bacini elettorali ha condotto alla soluzione meno impegnativa: far coincidere la Città Metropolitana con i confini della Provincia di Napoli escludendo porzioni dell’area casertana, di quella aversana e dell’agro nocerino - sarnese. Gli antichi casali, saldati in un continuum urbanizzato che si snoda lungo la soglia del perimetro comunale, assorbono nella residenza e restituiscono nel pendolarismo, l’eccedenza di popolazione in un processo di osmosi fatto di alterni squilibri. Napoli dovrebbe recuperare la sua collocazione di metropoli europea lungo le grandi infrastrutture come i corridoi internazionali di comunicazione e un “mito” della pianificazione regionale, l’aeroporto internazionale di Grazzanise, ancora irrealizzato nonostante il consenso “quasi” unanime ricordato da Enrico Schiano nell’intervista ad Alfonso Ruffo.

Dalla cresta delle colline Napoli ha scrutato l’orizzonte con la stessa diffidenza che Leonardo Sciascia attribuiva alla Sicilia, alla ricerca delle vele saracene che annunciavano le incursioni lungo la spiaggia di Chiaja. Il mare, solo marginalmente e prima che l’industrializzazione lo separasse fisicamente dalla città, è stato il luogo del loisir, del tempo libero. Il recupero del litorale è stato a lungo invocato a Bagnoli dove esiste il retroterra per attrezzare un’offerta turistica che integri quella del patrimonio storico - artistico del centro e, limitatamente, un’industrializzazione “leggera”, hi-tech compatibile con i luoghi. Per raggiungere questa conclusione “quasi” unanime e descritta in estrema sintesi, sono occorsi circa 30 anni di confronti che potrebbero arenarsi di fronte all’ “enigma” della colmata.

La complessità delle parti urbane può riassumersi nei Quartieri Spagnoli, centrali e marginali al tempo stesso, che, a partire da una serrata maglia ortogonale, sono cresciuti vertiginosamente su sé stessi come buona parte della città consolidata. Il degrado degli isolati della scacchiera è smentito dall’elegante argine di via Toledo, la strada che Stendhal “non avrebbe potuto dimenticare”, impreziosita dalle opere di Luigi Vanvitelli e Mario Gioffredo. L’integrazione sociale in questi ambiti è nata dalle ricadute che le residenze signorili avevano sull’intorno coltivando un ceto artigiano che viveva in prossimità ed in simbiosi con quello aristocratico. Questo processo, proseguito, come notava Antonio Rao, con l’avvento della borghesia professionale è, oggi, in declino per effetto di mutamenti economici a scala globale e del mercato immobiliare che, a seconda delle risorse, favorisce il “radicamento al centro” o spinge all’esodo verso la periferia sovra urbanizzata. Si rischia di travolgere uno dei tratti più tipici e vitali della società napoletana, il carattere interclassista. L’”apartheid sociale” evocato da Tomaso Montanari nasce, a nostro avviso, da un piano inefficace nell’attrarre il capitale privato, circoscritto ai singoli edifici ed incapace di aprirsi alla dimensione della parte urbana.

L’immobilismo confuso con la tutela e l’inerzia dell’azione pubblica di fronte a quei “processi spontanei” più volte evocati da Gennaro Biondi e non sempre virtuosi, si traduce a danno dei più indifesi. A questa inerzia si oppone, per dirla con Pasolini, “la disperata vitalità” di associazioni e volontari che hanno innescato processi di emancipazione negli ambiti più degradati. I fenomeni complessi che abbiamo provato a descrivere hanno vissuto cicli, oscillazioni da un polo all’altro, e contengono al loro interno potenzialità che possono liberare energie inaspettate. La comunità cittadina vive un clima di vigilia, ricerca un tempo perduto, reclama una svolta che le istituzioni devono saper cogliere ed interpretare.