Occhi aperti

di

Nella frenesia ossessiva attuale, in cui non vi sono più luoghi deputati ai pensieri, il concetto del siamo tutti uguali esce dalle chiese, ormai vuote, e entra nella quotidianità, invadendo in maniera incontrollata ogni spazio e concetto. Devono essere stati belli i tempi in cui l’uguaglianza era propria solo della domenica e si poteva poi rincasare ognuno nelle proprie classi, gerarchicamente perfette, socialmente accettate, equilibrate, pur nelle loro insuperate lacune. Devono essere stati belli quei tempi, ma non si può dire, perché il siamo tutti uguali è il credo di oggi, imposto, da cui non ci si può scostare per nessuna deviazione di riflessione, neanche fosse uno spunto o una provocazione, vietato quando non c'è capacità di analisi, allora il siamo tutti uguali diventa il minimo comune denominatore della deficienza: per non far sentire minoritario chi non ha capacità, siamo tutti ugualmente incapaci; si intravede - ad onor del vero - il sano principio, se non fosse terribilmente svilente il risultato di boy scout allo sbaraglio, no anzi, lì la gerarchia è ferrea, parola di lupetto.

Succede alle persone, succede ai luoghi, succede ai tempi, così la notte pare a forza debba essere uguale al giorno, con la necessità, non richiesta, di riempirla di attrattive, con le stesse regole, gli stessi problemi. Complesso delle città che vorrebbero sentirsi chiamare metropoli o più.

No, questo almeno, sarebbe cortese lasciarlo invariato, la tracotanza dell'ugualitarismo ceda il passo a madre natura e consenta la scissione tra luce e buio. Il popolo della notte lo spera, sono i reietti di quella società mattutina, sono i lavoratori con i turni scomodi, gli umili che stanno dietro le quinte di uno spettacolo indecoroso su cui regge il resto, erano gli spacciatori e le prostitute, prima che diventassero parte integrante del giorno da cui si nascondevano, restano gli scrittori e qualche operaio, sono l'unica classe rimasta di cui si può parlare senza essere aggrediti, talmente minoritaria da non essere tutelata, quella degli insonni, per scelta, per professione o per passione.

Sono la parte della società più reale che ci è rimasta, forse l'unica ancora autentica. Io ne faccio orgogliosamente parte dalla nascita e sono di quello schieramento che di notte non ha nessuna intenzione di dormire, non come i cugini, più sfortunati, che passano le ore a cercare di addormentarsi, di cui Titta Di Girolamo, di sorrentiniana memoria, è il più chiaro esponente. Per me, come per i miei colleghi, il tempo è scandito da attività che sono solo nostre, minuti lunghi senza ingerenza alcuna da nessuno. Si può leggere, scrivere, passeggiare, si può discutere con sé stessi, sottovoce, come Marzullo, o urlando, in maniera coerente o sconclusionata, come Arbore suggeriva nel suo programma dal nome, non per caso, ‘Quelli della notte’.

Concato nella sua solita delicatezza colse quell'atmosfera eterea di quelle ore che sono di nessuno: 'sapessi amore mio come mi piace, partire quando Milano dorme ancora, vederla sonnecchiare e accorgermi che è bella, prima che cominci a correre e ad urlare', più giocoso l'avrebbe ripetuto qualche anno dopo anche Jovanotti nella 'Gente della notte', ribadendo come quella sia una setta senza poteri, in cui si condivide del tempo sospeso che è proprio solo di chi lo usa, mentre gli altri, più o meno beatamente, dormono. Ecco, allora quel tempo lasciamolo a chi lo vive, garantendo dei servizi certo, ma senza invadere quel ritaglio di libertà, senza colonizzarlo. Sì alle metropolitane sempre aperte, più aperte, aperte ogni tanto, come sia, basta che funzionino, sì ai maggiori controlli, sì anche ai musei e alle sale studio a disposizione, se le organizzazioni sono in grado di autogestirsi, se lo vogliono, senza imposizioni, senza che diventi una regola che tanto poi siamo così bravi a fraintendere. Non creiamo nuovi equivoci, non ne abbiamo bisogno, se crollasse anche l'incertezza della notte, allora davvero non resterebbe che dormire.