Le contraddizioni di una città “ambigua”

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Il volo del calabrone rientra tra le leggende più affascinanti poiché afferma il fatto che nonostante non possa volare, l’insetto naviga nel cielo sfidando le leggi dell’aerodinamica. Ma ciò che intriga di più è il suo lato metaforico secondo il quale nulla è impossibile e i limiti rappresentano solo una costruzione mentale sia per i fenomeni naturali sia per quelli che riguardano l’Uomo e la società nel suo complesso.

Questa leggenda mi torna in mente ogni qualvolta provo ad analizzare i dati relativi allo sviluppo economico e sociale della città metropolitana di Napoli. E’ un territorio complesso, difficile da inquadrare in un modello urbano e quindi capace di attivare processi che spesso non hanno nulla di razionale quanto piuttosto una capacità di definire quadri territoriali irripetibili perché del tutto anarchici nella loro origine. Insomma Napoli è un “calabrone urbano”. La nostra città, già in declino trent’anni fa per il ben noto processo di deindustrializzazione che tendeva a modificare la sua immagine in direzione di un “terziario straccione” che nulla aveva della modernità urbana, ha da allora dovuto sfidare una terribile congiuntura economica, una pandemia sconosciuta e le conseguenze di una guerra nel cuore d’Europa.  Eppure la metafora del volo del calabrone ci invita ad osservare la città nel suo recentissimo vissuto quotidiano  fornendoci elementi, forse non scientifici, ma testimoni di comportamenti diffusi in gran parte della struttura sociale della città: stabilimenti balneari e ristoranti affollati,  concerti e sfide sportive sold out , spese per gite e  week end  “fuori porta” hanno riempito le cronache dell’estate offrendo la sensazione che l’unica forma di cittadinanza possibile fosse ormai quella basata sul consumismo con buona pace di un minimo di programmazione dell’incerto futuro.

Tutto dovuto all’arte dell’arrangiarsi, della rassegnazione di tipo deterministico e dello spontaneismo a prescindere da qualsiasi forma di razionalità esistenziale?  Forse sì, ma forse alcuni fenomeni hanno diritto ad una attenta osservazione critica in un contesto in cui la paura, la delusione la sensazione di una marginalizzazione economica e della conseguente esclusione sociale disegnano una città che respinge i suoi cittadini nei soffocanti recinti dell’egoismo come atomi isolati. Insomma siamo forse alla “solitudine del cittadino globale” teorizzata dal ben noto sociologo Bauman nell’ormai lontano 2017.

La cosa più preoccupante di tale inquietudine sociale sta nel fatto che essa costituisce un ostacolo a possibili rimedi collettivi: le persone si sentono insicure, diffidano dell’altro, restano bloccate nell’assunzione del rischio che comporta l’azione collettiva. Insomma si privilegia la rivendicazione soggettiva alla costruzione del “bene comune”, qual è la socialità.

La risposta dell’economia, sempre cinica nel suo essere, sta nell’affermazione di forme di economie parallele ormai ben consolidate nell’intera area metropolitana: alle attività ufficiali si affiancano in una consistenza simile o addirittura dominante in alcuni territori quelle del lavoro informale nelle sue diverse declinazioni e quelle della criminalità che attrae soprattutto gli esclusi ed i disperati. Da parte loro le istituzioni locali appaiono sempre meno classe dirigente e sempre più establishment  in cui l’unico obiettivo è la difesa dello status quo costruita su rigidi meccanismi di cooptazione e familismo “amorale”.  Esse convogliano la loro azione verso la sicurezza individuale che garantisce il consenso elettorale ma nello stesso tempo contribuisce alla destrutturazione di un fondamento della democrazia, la partecipazione per un’etica condivisa.

Come Galileo nel 1633 pronunciò il fatidico “eppur si muove” per sfuggire al carcere, Napoli, con comportamenti diffusi trasversalmente nelle sue componenti sociali, si adatta , flette su se stessa, si rifugia in un antistorico individualismo alimentando così  la metafora del volo del calabrone.

Forse aveva ragione Benedetto Croce quando scriveva che “.., Napoli è un paese in cui è impossibile promuovere un pubblico interesse senza rimetterci il cervello e la salute”.  Il futuro? Non ci resta che attendere il verdetto della storia.