Tre temi di architettura contro il degrado

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Degrado ambientale produce degrado sociale e un’“inciviltà diffusa”, democraticamente interclassista, a cui la nostra comunità sembra rassegnata o assuefatta, come ha rilevato Gabriella Reale. Dovremmo concentrare la nostra attenzione su quegli ambiti della Città Metropolitana dove la precarietà si accompagna alla mancanza di sicurezza. Sicurezza che non è solo, come ricorda Mario Morcone, “[…] ordine pubblico ma un insieme di misure che garantiscono la collettività nell’esercizio dei propri diritti […]”.

L’architettura, per arginare degrado e insicurezza, potrebbe agire su tre livelli di differente complessità.

Il primo è quello della riqualificazione degli spazi aperti pubblici: strade e piazze.

Il grande progetto urbano che ha risollevato le sorti di Barcellona ha preso le mosse dal recupero e dall’arredo, affidato per concorso a giovani architetti, delle piazze del centro storico. Per arredo urbano intendiamo un “restauro ambientale” attento alla specificità dei contesti, che non saturi i residui spazi di prodotti standard, panchine e fioriere, prelevate da un catalogo indifferente alla natura dei luoghi. “Restauro ambientale” che dovrebbe ispirarsi a linee guida di assoluta semplicità: eliminazione di tutti gli ostacoli alla fluidità della circolazione veicolare e pedonale; continuità dei marciapiedi integrati da percorsi per i disabili; ripristino dei sagrati delle chiese; fruizione visiva del verde privato; restauro dei superstiti elementi pregiati di manifattura artigianale ed industriale: lumi, ringhiere, orologi, targhe. Privilegiare, ovunque possibile, la messa a dimora di alberi e arbusti che manca, ad esempio, nel recente riassetto dei marciapiedi della Riviera di Chiaja. Marciapiedi larghi fino ad otto metri, spesso privi di ostacoli alla piantumazione come gli accessi ai sottoservizi, ma dove, per dirla col poeta, “ombra non rendono gli alberi”. Alberi e fontane che il Viceré Medinacoeli nel 1697 dispensò con generosità. Ci sarà una ragione per cui nella città dove il passato è diventato un feticcio a cui rendere omaggio, anche in contrasto ad ogni ragionevole necessità del presente, non si sia tenuto conto di questo precedente.

La travolgente espansione turistica andrà contemperata con un’ordinata occupazione del suolo pubblico che garantisca il decoro e la sicurezza nei congestionati luoghi della movida. Tutto sarà inutile in assenza di manutenzione e sorveglianza a sostegno dei privati che hanno curato aiuole o marciapiedi come denuncia uno scorato Maurizio Marinella.

Dal piano bidimensionale di strade e piazze passiamo allo spazio verticale della città.

La formazione dei giovani è il più potente antidoto al degrado e la migliore premessa per una società più equilibrata e, dunque, più sicura. Ricordiamo la lezione di Sergio Fajardo, già descritta sulle pagine di Nagorà, il sindaco di Medellin che ha arrestato la decadenza della capitale colombiana del narcotraffico con un programma fondato sulla realizzazione di una rete di attrezzature per la formazione: scuole, biblioteche e parchi informativi. Attrezzature adeguate alle necessità della vita contemporanea di cui la Città Metropolitana ha un estremo bisogno scoraggiato, a Napoli, dalla normativa del piano, rigida ed incapace di esercitare un’efficace seduzione sul capitale privato di cui pure si sollecita l’intervento.

Il terzo tema è quello del rapporto tra le infrastrutture di trasporto e il riassetto delle aree da riqualificare.

Nel disegno dei piani per Bagnoli, le stazioni della metropolitana non hanno avuto alcun ruolo, vittime di quel dogma che non ammetteva alcuna contaminazione tra natura ed architettura. Se gli alberghi erano stati confinati in cul de sac tra via Nuova Bagnoli ed il porto canale, le stazioni erano semplici accessi persi nel reticolo dei viali del grande parco, candidandosi ad essere i luoghi ideali per agguati dopo il tramonto. Le stazioni potevano essere progettate con la parte sotterranea del fascio dei binari e, fuori terra, come architetture di cubatura  anche modesta da destinare ad attrezzature pubbliche e per il tempo libero. Edifici plurifunzionali, attivi nelle diverse ore della giornata, intorno ai quali organizzare piazze di dimensioni calibrate, punti di ritrovo, poli per strutturare il ridisegno dell’ambito. La Metropolitana regionale, potrebbe avvalersi di questa tipologia di stazioni per innescare il contestuale recupero, di ambiti degradati dell’entroterra. Ci piace ricordare che un urbanista come Aldo Loris Rossi, attento al problematico retroterra napoletano, condivideva questa tesi.

Tutto questo non sarà possibile se prima non si stabilirà un’alleanza tra istituzioni e comunità che rimuova diffidenze antiche e nuove verso le azioni sul territorio, spesso vissute come imposte o estranee alle proprie esigenze. Occorrono forme di consultazione, apertura alle sollecitazioni dei cittadini, per superare la “rivendicazione individualista” verso la costruzione del bene comune come ha ricordato Gennaro Biondi.

Le coinvolgenti storie descritte nelle interviste di Davide Cerbone, indicano una strada che è possibile praticare. Nell’era dei social e delle provocazioni intellettualistiche come l’architettura open source è ancora l’umanità, che in questa città è il vero bene immateriale da proteggere, a prevalere. Il contatto, la conquista della fiducia reciproca, possono abbattere barriere, rimuovere pregiudizi e costruire realtà che si offrono come modelli esemplari anche per operazioni più ambiziose come la rigenerazione urbana.