Come si cambia (per non morire)

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I sociologi lo definiscono adattamento funzionale. Secondo la vulgata popolare, invece, è semplicemente «fare di necessità virtù». Comunque la si voglia raccontare, si tratta di provare a trarre un qualche vantaggio da un accidente che ci è capitato tra capo e collo.

Il fatto certo è che il Covid ci ha cambiati. O forse ha solo impresso una spinta al cambiamento che avevamo già innescato nell’attesa che arrivasse un evento straordinario a darci il coraggio di quell’ultimo, definitivo strappo. Uno strattone che definisse una cesura tra il mondo di fuori e quello di dentro, autopoietico e autoriferito. Sufficiente a sé stesso per definizione.

Così il filo delle relazioni tangibili, occhi negli occhi e mani nelle mani, s’è assottigliato sempre più, assecondando un processo degenerativo della socialità intesa nel senso tradizionale che si era già avviato da tempo.

Una strada che anche il mondo degli adulti ha imboccato con decisione sempre maggiore: agli ormai popolatissimi universi paralleli di Facebook e Instagram, preghiera del mattino per la stragrande maggioranza degli inquilini del Pianeta, si è aggiunto TikTok, proscenio eletto anche da molti (e molte) 40-50enni per soddisfare un’insaziabile fame di evasione, di protagonismo e di “condivisione” (nell’accezione dei nuovi media, s’intende). Bisogni ai quali la voragine della pandemia, che ha inghiottito in un sol boccone due anni di vita, ha dato un contributo senza precedenti.

E allora tutti a pontificare e a litigare – rigorosamente a distanza di sicurezza - sui grandi temi, dai vaccini alla guerra. O, in alternativa, a “postare” video e fotografie di vita vissuta tra le mura domestiche, dal compleanno del bambino all’ultima prelibatezza preparata ai fornelli. Così che a ciascuno sia data la propria piccola platea. In poche parole, le nostre esistenze hanno traslocato in una dimensione virtuale che tutto contempla e tutto contiene, dal tempo libero alle dinamiche lavorative. Al punto che se qualcuno vi risponde al telefono, a bassa voce e frettolosamente, o con un messaggio, «sono in riunione», ancora oggi è probabile che quella riunione si stia celebrando via internet, con gli interlocutori accuratamente distanziati.

Intanto, ci facciamo recapitare a casa di tutto: dal panino al libro, dalla cover per il cellulare alla pizza. Ci siamo fatti consegnare a domicilio perfino i film, che ora guardiamo in larga parte sulle piattaforme di streaming, che in questo autoesilio un po’ forzato e un po’ voluto hanno trovato la loro consacrazione.

Mentre ci rintaniamo nei nostri gusci fatti di bit, i negozi storici ammainano le saracinesche in segno di resa al nuovo mondo che avanza implacabile. C’è chi la chiama resistenza. O meglio, per restare sintonizzati con le mode, «resilienza». E c’è chi invoca l’etimologia per suffragare l’interpretazione di una crisi (dal greco “krisis”: scelta) che ci porterà a riscrivere in meglio il nostro destino collettivo. Per dirci, insomma, che alla fine davvero «andrà tutto bene». Intanto, però, dilaga il virus dell’individualismo. In questo senso, ne siamo usciti un po’ tutti positivi.