Il viaggio di Cucinella nell'"Italia di mezzo". L'architetto: "Le aree interne grande risorsa, ma troppi convegni e pochi fatti"

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Un viaggio in cento fermate lungo la spina dorsale del Paese. Un'esplorazione da Nord a Sud (isole comprese), attraverso l'architettura, le tradizioni e la natura, per riscoprire il carattere e l'identità della «grande terra di mezzo tra le città del Tirreno e quelle dell'Adriatico».

Così Mario Cucinella, architetto, designer e accademico italiano di fama, ha presentato nell'ambito della Biennale dell'Architettura 2018 "Arcipelago Italia", la sua indagine sulle aree interne del Paese. Un'esperienza organizzata in otto itinerari tra borghi storici, cammini, paesaggi e parchi, che, dall'arco alpino, passando per la dorsale appenninica, è giunta fino in Sardegna.

Il consuntivo, disfatte le valigie, è un alternarsi di entusiasmo e depressione. «Troppe chiacchiere e pochi fatti», si tormenta Cucinella, che nell'ambito della Biennale si è occupato del Padiglione Italia. Ma subito dopo assicura: «I territori che non affacciano sul mare sono una grande risorsa». Alla fine di questo racconto "stratificato" dell'Italia più nascosta, tuttavia, risale alla bocca il retrogusto amaro di un'opprimente ineluttabilità. «Il problema è che ai dibattiti segue il nulla», osserva il professore, che nel 2009 ha vinto il prestigioso premio Mipim nella categoria "green building" con il Centre for Sustainable Energy Technologies, costruito in Cina, e due anni dopo, nel 2011, lo ha vinto di nuovo con il progetto della sede centrale italiana della 3M.

Architetto, la Biennale dell'Architettura si è conclusa da qualche mese. Quale bilancio emerge da questa esperienza?

«I bilanci sempre molto pericolosi. Lo scopo era più che altro quello di verificare e far sapere che esiste un'altra Italia poco visibile che contiene il dna della nostra cultura. Si parla tanto di Città metropolitana, un'idea astratta che, essendo basata sui soli confini amministrativi, contiene una serie di contraddizioni. Perchè l'Italia non è fatta di Città metropolitane, ma di piccoli centri. Roma, con i suoi 5 o 6 milioni di abitanti, è un'eccezione. Le altre nostre città, quando arrivano a 3 milioni, sono già grandi. Dunque, attenzione a non fare il verso a Londra e Berlino, raccontando una storia che non esiste: noi siamo diversi, con la nostra combinazione unica tra cultura, città e territorio. La mostra portata alla Biennale voleva raccontare il Paese senza rincorrere modelli che non ci appartengono. Anche perché il nostro è un modello che i Paesi in crescita guardano con interesse. Del resto, le città da 10 milioni di abitanti sono ingestibili».

Il tema delle aree interne ha assunto uno specifico interesse in questi ultimi anni, soprattutto dal punto di vista delle strategie di sviluppo territoriale. Come si fa riscattare queste zone da una condizione di marginalità?

«Ci sono problemi concreti e reali che non possiamo nascondere, primo fra tutti lo spopolamento dovuto in parte a temi di sicurezza. Parlo delle aree soggette a sisma: nessuno torna nei luoghi del terremoto senza avere prima serie garanzie. Così, tanti paesi dove ci sono ospedali e scuole si svuotano. Le infrastrutture, però, restano lì. Le aree interne sono un grande giacimento culturale da non perdere, al quale le fasce giovanili guardano con interesse. Si tratta di costruire occasioni, offrendo infrastrutture digitali: senza la banda larga e il 4G è difficile sviluppare attività imprenditoriali».

Il fenomeno dei migranti richiama il tema dell'accoglienza e il rapporto diretto con l'architettura e le aree interne. L'emergenza potrebbe essere convertita in opportunità per un riequilibrio demografico e uno sviluppo delle aree spopolate?

«Certo, questo è già avvenuto, solo che spesso in questo Paese i dati vengono filtrati dall'ideologia, con il risultato che la demagogia sta uccidendo il senso dell'accoglienza. Nelle aree interne il saldo è ancora negativo: in dieci anni sono andate via un milione e mezzo di persone, che sono state rimpiazzate da un milione di migranti regolari. Persone che hanno aperto scuole e attività commerciali, rendendosi protagoniste di una rinascita. Ci sono esempi meravigliosi, come in Basilicata la Fondazione Città della pace per i bambini, dove i giovani che sbarcano in Italia dopo una vita difficile fanno formazione scolastica. Quando si riabita, si rimette in moto una microeconomia, con i rapporti sociali connessi. È chiaro che queste cose hanno bisogno di impegno».

Allo stesso tempo, però, bisogna anche lavorare ad un difficile riequilibrio economico tra Nord e Sud. Nel suo viaggio nelle aree Interne del Paese, lei ha sottolineato che la frattura resta evidente.

«È una frattura che si sta allargando sempre di più. Non tanto in Sicilia, dove soprattutto tra Palermo e Catania c'è fermento, e la gioventù vuole restare. Penso alla Sardegna, un posto abbandonato da tutti i punti di vista, con una popolazione anziana che continuerà a crescere e ha bisogno di cure. Il Paese va ripensato sulla base dei dati: in Calabria c'è tanto abbandono, una sensazione di zero opportunità, per questo i paesi si svuotano. E l'abbandono giovanile va visto anche in prospettiva: ora lì abitano tanti anziani, ma tra venti o trent'anni questo rischia di diventare un problema di welfare. Più che le cose brutte, però, con questo viaggio abbiamo voluto mettere in evidenza le tante straordinarie opportunità in un Paese che nutre ancora tante speranze. Il problema è che la politica queste opportunità e queste speranze non le vede. Probabilmente nemmeno le conosce. Ha altri problemi che non si capisce quali siano, ma se la gente non è la priorità, significa che qualcosa non va. Andrebbe messo a punto un grande piano di rilancio: è offensivo parlare di una parte dell'Italia come se fosse una zavorra. Quella del nostro Mezzogiorno è una storia di ferite in nome delle quali sono stati bruciati tanti soldi. Non si riesce a capire come sia possibile che su una frattura così ampia la politica continui a balbettare, senza prendere una decisione seria».

Intravede la possibilità di un'inversione di tendenza per il Sud, magari partendo proprio da quello che Lei ha chiamato l'altro spazio, ovvero le stesse aree interne?

«La speranza c'è sempre. Io faccio l'architetto, noi abbiamo detto che l'architettura può essere uno strumento di rilancio dei territori: un nuovo presidio medico, una casa della salute, una scuola che diventi un centro civico per i beni culturali possono essere luoghi di rilancio sul piano dell'attenzione e dell'occupazione. Nascosto nell'entroterra c'è un giacimento culturale enorme da valorizzare e far conoscere, anche servendosi dell'architettura. Per questo abbiamo chiamato sei studi che riteniamo essere in empatia con la nostra idea secondo cui l'architettura possa risanare i luoghi».

Da architetto, la sua narrazione delle aree interne si è sviluppata prevalentemente attraverso le architetture realizzate in questi luoghi, che ci restituiscono il carattere, la storia e al tempo stesso la condizione contemporanea di quel "Paese di mezzo" che rappresenta più della metà dell'intero territorio italiano. Ma "Arcipelago Italia" è stata anche l'occasione per presentare cinque proposte progettuali.

«Volevamo raccontare un mestiere che sta diventando una specie di isteria collettiva fatta di glamour, eventi incredibili e grattacieli. Ci sono invece tanti architetti che non urlano e non riempiono pagine giornali con cose inutili. Una caserma dei pompieri, una stazione per le bici o per gli autobus, un piccolo centro sociale, una scuola: l'architettura deve pensare a queste cose, riportando al centro il valore concreto di un mestiere che non può essere fatto solo di immagine.

In qualche modo, mettendo al centro la normalità.

«Sì. "Arcipelago Italia" ha fotografato persone che lavorano, soffrono, fanno cose normali in un territorio non globalizzato. Un modo per far capire che questo mestiere è importante. I turisti vengono a vedere i nostri musei, le nostre città, i nostri borghi, le nostre architetture. Il fatto che tutto debba assumere una connotazione mediatica lo trovo una roba di banalità e di una povertà indegna. Inoltre, questo approccio ci distoglie dal senso delle cose. Tant'è vero che si fanno mille dibattiti, ma dopo non succede mai niente. Questo è un Paese che si è abituato alle chiacchiere: parliamo delle "green cities" come se queste, dopo un convegno, si facessero da sole. Dobbiamo tornare alle origini di un mestiere che, al contrario, è pragmatico. Il resto è decorazione, non se ne può più».

Oggi l'architettura vive una condizione di grande difficoltà, specie nel Mezzogiorno. La sua indagine conferma questa condizione generale?

«Tolta Milano, l'architettura soffre in tutto il Paese. Non mi sembra che al Sud vada peggio che in altre realtà del Nord. Molto dipende anche dalle difficoltà burocratiche e da una litigiosità che non ha prodotto niente. Il boom di ricorsi è il segno di un malessere generale: non c'è fiducia di nessuno, il che alimenta un dibattito sterile. È la conseguenza di politiche basate sulle furberie, una sfiducia che ammazza ogni possibilità di crescita. L'idea del sospetto ha delle conseguenze pesanti: un Paese che non ha fiducia in se stesso non va da nessuna parte, e infatti non andiamo da nessuna parte. A Milano abbiamo progettato la Città della salute, ma è stato tutto fermo quattro anni a causa dei ricorsi. E abbiamo vinto una gara per un ospedale a Lecce: speriamo che non diventi un problema».

Nelle politiche di trasformazione dei territori si affacciano nuove tematiche ambientali e sociali: la rigenerazione urbana, le questioni legate ai cambiamenti climatici, il rischio sismico, idrogeologico e vulcanico richiedono una diversa attenzione e una nuova sensibilità collettiva. L'architettura contemporanea è in grado di misurarsi con queste nuove sollecitazioni?

«Anche qui si fanno grandi chiacchiere, ma sul rischio sismico abbiamo visto poco. Le leggi che si fanno servono solo a mettere delle toppe, intanto il grande progetto di "Casa Italia" per il rischio sismico è fallito miseramente: la messa in sicurezza è un grande investimento che il Paese potrebbe e dovrebbe fare su sé stesso, e che invece non parte. Se al rischio sismico si aggiungono poi la fragilità idrogeologica e il cambiamento del clima, alla lunga rischiamo di ritrovarci con problemi molto seri. Eppure non vedo la politica orientata su questi temi. È tutto astratto: i Comuni dovrebbero fare i piani di adattamento al clima, ma quelli che provvedono si contano sulle dita di una mano, e i temi del rischio idrogeologico, del rischio sismico e  del cambiamento climatico non sono collegati tra di loro. Non mi sembra, insomma, che questi argomenti siano nell'agenda di un governo che ha parlato di ambiente. Pare che l'unico pensiero siano gli immigrati della "Diciotti". Forse i nostri governanti ritengono che tutte queste cose verranno tra chissà quanto. Ma basta vedere le statistiche sull'innalzamento del mare per dedurre che non è così. E dire che le competenze ce le abbiamo: possiamo contare su Istituti di livello internazionale come l'Ispra, il Cnr, il Centro studi metereologici del Mediterraneo. Dovremmo tradurre queste conoscenze a livello di progettazione. Noi siamo pronti a dare una mano, ma vedo che è tutto fermo. Poi come al solito verranno i rigurgiti dell'ultimo secondo. La prevenzione, però, richiede tempo: ecco perché dico che urge un grande patto sociale tra i politici su temi che riguardano la vita della gente».

L'importante esperienza di "Arcipelago Italia" avrà ulteriori sviluppi?

«Vedremo, non mi piacciono le repliche. Ma è vero che abbiamo scalfito solo una piccola parte del problema: le aree interne sono vastissime. Potremmo coinvolgere altri compagni di viaggio per valorizzare questo grande polmone d'aria al centro del Paese che dal punto di vista ambientale è una miniera d'oro»