Trenta piani di verde

di

Il verde urbano nella sua versione convenzionale, che conosciamo per esperienza diretta, è quello dei grandi parchi pubblici e dei giardini privati che trovano posto nelle aree centrali della città.

La quantità di aree disponibili in periferia ha consentito, negli anni, l’affermarsi del modello di grandi edifici immersi nel verde, in una sorta di degradazione dell’utopia radicale vagheggiata da Le Corbusier nel Plan Voisin.

Il verde della periferia, sfondo consolatorio di torri multipiano e stecche lunghe centinaia di metri, diventa risarcimento della perdita del centro, standard compensativo, ma resta sostanzialmente una waste land dove è pericoloso avventurarsi dopo il tramonto come nel bosco del folclore antico.

Negli ultimi anni, la necessità di recuperare spazi di natura irreperibili nel tessuto più densamente costruito e il desiderio di fuga dall’isola di calore urbana hanno avviato un’interessante inversione di tendenza.

Natura ed artificio non più separate ma fuse in una simbiosi dove l’integrazione di rampicanti, arbusti, alberi, rispetto alla struttura portante, agli spazi, alle finiture di un complesso architettonico è parte integrante del processo progettuale.

La necessità di un’architettura «verde» si afferma in significative evoluzioni normative spingendo la sperimentazione progettuale a produrre edifici e modelli residenziali inediti e complessi.

A Beirut, nell’opera di recupero urbano seguita alle distruzioni della guerra, la normativa edilizia prevede, per gli edifici alti, una quantità specifica di metri quadrati di spazio esterno per ogni piano: balconi, logge, soggiorni all’aperto nello stile del levante mediterraneo e, dunque, giardini.

Nel lavoro di Emilio Ambasz, il verde, in tutte le sue forme, tessiture, filari, terrazze, è l’elemento centrale di un’affascinante ricerca che prende le mosse più di vent’anni anni fa e prosegue ancora oggi.

L’opera più emblematica dell’architetto per la potenza comunicativa e la magniloquenza che esprime è la Prefectural International Hall realizzata a Fukuoka, in Giappone, nel 1990.

Una sorta di moderna piramide a gradoni dove lo spazio di natura sottratto dall’area di sedime viene restituito alla città grazie al prolungamento del parco pubblico sull’imponente successione di terrazze verdi che dalla quota di campagna raggiunge il coronamento del belvedere.

Un inedito modello residenziale che spicca nel panorama italiano è il «Bosco Verticale» realizzato a Milano dall’equipe diretta da Stefano Boeri. Il grattacielo ospita su ampi balconi aggettanti piccole porzioni di aree coltivate che vanno dagli arbusti agli alberi di piccola e media altezza per complessivi 20.000 mq di superficie.

Un’operazione che ha trasformato l’edificio milanese in una sorta di prototipo da ripetere e «piantare», è il caso di dire,  in altri territori adeguandolo, naturalmente, ai diversi contesti ambientali.

Ma la città può offrire infiniti spunti da cogliere: dalle squallide estensioni dei terrazzi di copertura da trasformare in tetti verdi, al recupero degli orti urbani, al riscatto di ruderi ed edifici abbandonati in giardini pensili, all’utilizzo degli spazi residuali dei processi di edificazione lasciati incolti. 

Insomma, il metaforico albero di trenta piani che Adriano Celentano intravedeva crescere all’orizzonte come un’inquietante presenza da cui difendersi si è ribaltato oggi in una realtà che fonde architettura e natura. Un modello positivo da promuovere per il progresso del nostro territorio.