Paolo Macry

Va pensiero
di Paolo Macry

Facebook, il populismo globale

di

Molti, non tutti, hanno applaudito l’espulsione di Trump dai social. Si è detto che era sacrosanto impedire al presidente di usare quella platea illimitata per la sua furibonda campagna contro il voto popolare, cioè contro la democrazia rappresentativa. E che semmai la decisione era tardiva. Ma si è anche recriminato sul fatto che i social sono sempre stati la cassa di risonanza di leader politici ben più eversivi. E si è malignato che proprio Facebook avesse “utilmente” messo a disposizione della campagna elettorale di Trump le proprie informazioni relative a 235 milioni di utenti americani. “Facebook non può essere l’arbitro della verità”, aveva proclamato solennemente Zuckerberg.

Ma con ogni evidenza il problema va oltre il caso in questione e riguarda la natura stessa dei social. Ovvero riguarda, anzitutto, la clamorosa asimmetria che si crea, in un territorio comunicativo sostanzialmente privo di limitazioni, tra la massa polverizzata degli utenti e le macchine della propaganda politica. Per definizione, il popolo di Facebook è privo di ogni capacità di controllo sulle informazioni che riceve. La manipolazione dei fatti e quindi delle opinioni appare illimitata, supera qualsivoglia distopia orwelliana. Lo stesso fenomeno epocale del populismo, cioè la capacità dei governanti di rivolgersi direttamente ai cittadini e l’illusione dei cittadini di partecipare personalmente al governo, nasce anche sull’onda di Facebook, Twitter, Instagram. Che i social non siano innocenti è un fatto, sebbene gli ultimi a esserne consapevoli sembrino i loro utenti.

Con questo non si vuole certo negare che la comunicazione telematica costituisca una ricchezza incalcolabile per l’umanità intera. Ma il problema resta. Non è possibile avallare un fenomeno di censura. E soprattutto “non è possibile che piattaforme incredibilmente potenti decidano chi ha diritto di parola in un democrazia”, come ha osservato Alex Stamos, ex responsabile della sicurezza di Facebook. Nè sembra accettabile l’argomento che Zuckerberg sia un privato cittadino e Facebook un’impresa quotata in borsa. Esiste l’argomento opposto. I social hanno assunto a tal punto un’influenza mondiale, sono entrati così prepotentemente nel corpo vivo della vita politica, sociale, culturale dei cinque continenti, che appare sempre più incongruo parlarne come se si dovesse difendere il diritto di proprietà. Dopotutto anche in una società di mercato la sfera privata è soggetta a regole, ad esempio le regole antimonopolistiche. E non è fantascienza dire che il governo di Facebook sconfina ormai nel governo del mondo. Perciò, se è opinabile lasciare senza briglie quelle sconfinate reti comunicative, ancor più opinabile è che a decidere quando e chi censurare sia qualche manager dei social. O Zuckerberg in persona.

Il dibattito è aperto.